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Nuovi media. Informazione on line, chi innova vince

27/10/2009

Murdoch è il simbolo dell’editoria tradizionale che cerca di difendersi da Google. Ma “la forza dell’innovazione è tale da mettere in discussione qualunque genere di accordo monopolistico tra i grandi operatori del settore”. Davide Orecchio intervista Luca De Biase.

di Davide Orecchio


“Rispetto agli altri sistemi di trasmissione delle informazioni, Internet è tuttora il mezzo più libero, almeno a leggere i report principali delle fondazioni che si occupano della libertà di informazione. Questo è il quadro generale, poi è chiaro che Cina e Iran sono diversi dagli Stati Uniti o dalla Svizzera. Per quanto riguarda l’Italia, la situazione è ottima salvo per un punto: il continuo stillicidio di proposte di legge che preoccupa e innervosisce tutte quelle persone che fanno uso della rete per informare e informarsi in modo non tradizionale, al di là dei media tradizionali. Proposte di legge come la ‘Carlucci’ o la ‘D’Alia’ tendono a far coincidere i modi con i quali si controlla e autogoverna la stampa con le attività dei blogger, delle persone che usano i social network per informare e che naturalmente si sentono diverse dai giornalisti e dagli editori, non accedono alle stese provvidenze, non vogliono avere gli stessi oneri burocratici e di controllo. Al di là di questo stillicidio di proposte, ad ogni modo, le leggi attuali sono comprensibili a tutti e se ci si informa, si scopre che non ci sono particolari problemi.”


Inizia con una ventata di pragmatico ottimismo, quest’intervista a Luca De Biase, giornalista, scrittore, blogger, caporedattore di “Nòva24” (l’inserto del “Sole” dedicato alla cultura digitale e alle nuove tecnologie dell’informazione). Al centro del colloquio, come chi legge avrà capito, la libertà d’informazione coniugata nei tempi e nei modi dei new media. Tempi e modi che cambiano alla velocità della luce, per cui ciò che è libero oggi magari domani non lo sarà più, e gli spazi che ora sono accessibili potrebbero chiudersi all’improvviso.


La prima domanda che rivolgiamo a De Biase, perciò, riguarda lo scontro, che potrebbe decidere il destino della rete, tra grandi (e tradizionali) editori e nuovi protagonisti dell’editoria on line, scontro e (semplificato) dal duello tra Rupert Murdoch e Google, dove si ravvisa non solo un braccio di ferro economico ma anche un conflitto tra opposte visioni del mondo: la visione copyright di Murdoch (paghi per quello che leggi) e l’ideologia Free di Google (informazione e servizi gratuiti per tutti). Come andrà a finire?


È difficile prevederlo. E in realtà Murdoch non è neanche il più acceso difensore del copyright. In Italia ricordiamo che Mediaset ha fatto causa a YouTube, come del resto la Associated Press ha creato un sistema molto duro per vendere le notizie on line e per difendere il copyright di quelle notizie pubblicate sul web. Detto questo, Murdoch è diventato un po’ il simbolo dell’editoria tradizionale che cerca di difendersi da Google, nel senso che ha prodotto la sua idea di pagamento dell’accesso ai siti come soluzione economica per il futuro in un contesto nel quale la pubblicità sembra andare meno bene e i vecchi modelli di business sono in crisi. Come andrà a finire? Forse neanche Murdoch lo sa, visto che ha cambiato idea almeno cinque volte su Internet in maniera radicale, non dimostrando con questo di comprenderla pienamente. Negli ultimi dieci anni ha cambiato opinione da “Mi interessa un po’” a “Non mi interessa” a “Mi interessa un sacco e sarà tutto pubblicità” a “Voglio far pagare”. Questi sono cambiamenti radicali che non derivano evidentemente da una chiarezza strategica particolare.


L’Antitrust italiana ha aperto una discutibile istruttoria su Google News, e di Murdoch abbiamo detto. Google avrà i suoi difetti e le sue zone oscure, ma dal punto di vista della libertà di informazione sembrerebbe il caso di schierarsi con la società di Mountain View. E’ solo Google, in fondo, a dare a spazio a testate d’informazione e fonti che altrimenti sarebbero invisibili nell’Internet che piacerebbe ai grandi gruppi editoriali…


L’editoria tradizionale difende i media tradizionali e i siti che ne derivano, e ha interessi sostanzialmente diversi rispetto ai piccoli siti di informazione. Effettivamente c’è una distanza notevole tra le due posizioni. Una piccola impresa che abbia un giornale locale totalmente on line anche molto importante come, che so, Varese News, è difficile che possa ottenere qualche vantaggio facendo la guerra a Google News. Mentre La Repubblica o il Corriere o Il Sole 24 Ore hanno obiettivi diversi. Devono contemporaneamente difendere il giornale di carta, devono difendere la loro raccolta pubblicitaria tradizionale e hanno un traffico del sito che è meno dipendente da Google News.


Internet è in una fase molto aperta e molto competitiva, ma alla fine resteranno solo i pesci grossi? L’informazione su Internet e sugli altri media digitali passerà per una fase di normalizzazione e riconduzione all’ordine? Uno scenario in cui i produttori di contenuti diminuiranno e resteranno in piedi solo gli editori forti?


Le variabili in gioco sono veramente tante e quindi una previsione non è facile. Ci sono contesti diversi. Negli Stati Uniti siti nati da un singolo blogger, che poi sono cresciuti nel traffico con una grande specializzazione e reputazione, sono diventati più importanti di molti giornali. Nel mondo italiano, dove tutto è più stabile dal punto di vista dei sistemi di potere, le cose sono diverse. La normalizzazione ci sarà o no? Io penso che sia molto difficile per gli editori pensare di far tornare indietro il mondo, anche in Italia. Credo che il traffico on line si muova in maniera molto meno controllata e molto meno controllabile di quanto non sia nelle altre filiere mediatiche. Quindi ho l’impressione che ci saranno due tensioni all’interno dell’editoria. La prima sarà quella verso la difesa delle posizioni, l’altra sarà quella verso l’innovazione. Ma chi penserà solo a difendere le posizioni perderà mercato. Mentre quelli che faranno innovazione andranno talmente più veloce che gli altri dovranno seguirli.


Altra cosa forse è il mondo dell’Internet mobile, dove tutto è molto più controllato dagli operatori, la rete non è la stessa del fisso e la libertà di movimento degli utenti è limitata. Lì i sistemi di business, i comportamenti dei grandi operatori hanno molte più chance di influire sullo sviluppo complessivo. E gli editori, che cercano di capire come sviluppare la distribuzione dei giornali tradizionali con l’Internet mobile, potrebbero sfruttare la situazione a loro favore. Nel mobile un modello di business relativamente tradizionale ha molte più probabilità di affermarsi, e se fossi un piccolo editore me ne occuperei con molta attenzione.


Condivide l’ottimismo del direttore di Wired, Chris Anderson, secondo il quale dietro l’angolo c’è sempre una svolta tecnologica, un nuovo prodotto, che spiazza il monopolio dell’informazione e rimescola le carte in gioco? Ieri i blog, oggi Facebook e Twitter, domani chissà?


Dovremmo immaginare un accordo tra tutte le piattaforme, gli editori e i grandi operatori telefonici per frenare la rete, che è diventata così importante e attraente. Il che mi sembra veramente improbabile. Non dimentichiamo che adesso si parla del monopolio di Google, ma dieci anni fa si facevano ricerche on line usando Yahoo!, e poi è arrivato Altavista che ha spiazzato completamente il modello di Yahoo!, e poi è arrivato Google che ha spiazzato Altavista. In ogni fase sembrava che il vincitore lo fosse per sempre, poi è arrivata un’innovazione tecnologica che ha cambiato il quadro. Credo anch’io che la forza dell’innovazione sia ancora sufficientemente grande da mettere in discussione qualunque genere di accordo monopolistico o oligopolistico dei grandi operatori. Accordo del tutto ipotetico, peraltro, perché hanno interessi molto diversi.


Quanto incide la tecnologia sulla libertà d’informazione e di espressione? Quanto la potenzia? Lo si è visto con i video degli scontri in piazza a Teheran caricati su Youtube, o con gli aggiornamenti su Twitter. In quel caso lo strumento tecnologico ha ampliato la libertà d’espressione in un paese che aveva estromesso tutti i corrispondenti dei media ufficiali. Una tecnologia potente ma a basso costo sta ampliando gli orizzonti dell’informazione e della creatività, consentendo a chiunque di produrre contenuti e condividerli. Questi esempi di giornalismo partecipativo cosa ci insegnano?


Se prima i mezzi di informazione dei grandi gruppi erano padroni quasi assoluti dell’informazione, adesso lo sono solo in parte. Il giornalismo partecipativo è nato in opposizione al sistema tradizionale dell’informazione, ma adesso si sta evolvendo in un modo molto più armonico e di condivisione, perlomeno nelle democrazie. Nei paesi non democratici, invece, è quasi l’unico strumento di informazione libero. La tecnologia però è sempre e soltanto un’opportunità. Non è mai qualcosa che determina i fenomeni. Le nuove tecnologie sono talmente agevoli e facili da usare che moltiplicano la quantità di persone invogliate a utilizzarle. A monte, però, dev’esserci una consapevolezza sociale. La società deve sapere che esistono opportunità tecnologiche e le deve connettere all’importanza della libertà d’informazione per la democrazia.


E quale sarà il rapporto tra giornalismo professionale e giornalismo partecipativo?


Mentre in passato i giornali tradizionali rifiutavano il rapporto con il citizen journalism, e quest’ultimo si collocava in opposizione preconcetta nei confronti dei giornali tradizionali, adesso la situazione è molto più ampia e variegata e in molti casi si vede una collaborazione armonica. Il giornalismo professionale, alla fine, sarà costretto a trasformarsi in una funzione di servizio a favore della rete, delle persone che partecipano alla costruzione dell’informazione, sia creando dei luoghi di grande traffico sui quali si confrontano molte persone e ai quali contribuiscono molte persone, sia costituendo delle forme di filtro intelligente, sia costruendo delle forme di interpretazione e di linea editoriale, di ricerca di informazioni originali con un metodo controllato. Ma il metodo giornalistico definirà anche in futuro il giornalista professionista: la verifica delle fonti, la trasparenza nella linea editoriale, insomma tutto quanto riguarda l’artigianato giornalistico e la sua struttura epistemologica.


Obama ha polemizzato con la blogosfera: commenta troppo, non verifica i fatti, etc… Ha ragione o torto? La comunità globale Internettiana saprà autoregolarsi o le regole saranno imposte da fuori?


Non c’è nessuna differenza tra la litigiosità, il narcisismo e l’autoreferenzialità dei blogger e quella che si vede nei giornali tradizionali. Sono agnostico sul fatto che chiunque possa fare le sue critiche ai blogger, come spero faccia le sue critiche ai giornali quando questi si comportano in maniera faziosa o non corrispondente alla promessa che hanno fatto nella linea editoriale. Credo anche che non ci sia una particolare differenza tra i grandi blog e i grandi giornali. Da questo punto di vista tutti cercano l’ascolto, l’attenzione del pubblico e lo fanno utilizzando i mezzi che ritengono utili, e in certi casi lo fanno urlando delle notizie soltanto in parte verificate oppure interpretate in modo molto fazioso. Quello che è interessante nella sua domanda è se la rete è in grado di autoregolarsi. Io credo che ogni gruppo sociale, ogni gruppo di interessi, sappia costruire delle forme di filtro. C’è una quantità enorme di siti dell’odio, per esempio, di siti dell’integralismo, del terrorismo, della violenza ed è chiaro che la stragrande maggioranza delle persone che navigano su Internet non li guardano, non se ne curano, li escludono a priori. Questa è una forma di autoregolamentazione sociale nell’accesso alle informazioni. Che poi ci sia spazio anche per il gossip più assurdo e per le urla più faziose purtroppo è vero, ma non mi sembra che porti a sistemi di informazione che raggiungono la maggioranza della società.


Secondo lei, nel mondo ultracompetitivo di Internet, qual è la chiave del successo per un piccolo editore? Contenuti gratis generici? Contenuti specialistici a pagamento? Crossmedialità? Apertura totale agli utenti nella logica del web 2.0? Disseminazione dei contenuti su piattaforme di successo?


Prima di tutto si deve essere autenticamente sé stessi, mantenendosi leali alla promessa che si fa quando si dichiara di che cosa ci si vuole occupare. Sembra una banalità, ma al centro resta la reputazione, la credibilità di una testata. Sul piano dei modelli di business ci sarà un florilegio di possibilità: con la beneficenza, il pagamento delle informazioni premium, la costruzione di occasioni di incontro fisico nel territorio, la pubblicità, una pubblicità che a sua volta può cambiare diventando non soltanto messaggio commerciale ma assumendo funzioni di servizio e, perché no, direttamente di vendita. Ci sono veramente tanti sistemi per finanziarsi. Mi viene in mente l’esempio di Spot.us, dove il giornalista propone un’inchiesta e gli utenti lo finanziano con una raccolta di fondi. Sembra una sciocchezza, ma in realtà funziona e i pezzi, gli articoli che derivano da questo genere di ricerca, che tra l’altro sono spesso molto buoni, vengono poi anche ripresi dai giornali tradizionali. Ci sono veramente molti modelli da sviluppare. Questo è vero sia per i piccoli che per i grandi. Non è più l’epoca del controllo del territorio, dunque non è più possibile controllare il modello di business, se ne devono sperimentare molti e puntare su quelli che funzionano meglio nel tempo. Ma la cosa principale è stabilire una linea editoriale che sia autentica.


Tratto da www.rassegna.it
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