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Scenari: il futuro della politica secondo Comin

08/02/2012

Continua il dibattito su _2030 – La tempesta perfetta,_ il nuovo libro di _Gianluca Comin_ e _Donato Speroni_ dedicato alla grande crisi globale che dovrebbe colpire il mondo tra vent’anni. Il past president Ferpi ne parla in un’esclusiva intervista con _TG 1 Economia._

La politica globale non è tra le priorità dei governi, che abitualmente hanno una visione legata ai cicli elettorali a quattro o cinque anni, anche se alcuni dimostrano maggiore capacità di guardare al futuro: la Danimarca, per esempio, ha lanciato una “Energy Strategy 2050” che prevede il totale affrancamento dai combustibili fossili entro il 2050.
Eppure di politica globale abbiamo bisogno, perché le sfide sono mondiali e ci riguardano tutti. È questo uno dei temi affrontati da Gianluca Comin e Donato Speroni nelle 200 pagine di 2030. La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012), che spazia dalle problematiche demografiche a quelle ambientali, dalla politica all’economia.
Solo un governo mondiale potrebbe imporre comportamenti adeguati, ma è molto improbabile che si verifichi nei prossimi vent’anni, se non sarà innescato da una catastrofe planetaria, certamente non auspicabile. La governance internazionale, nella “geometria variabile” configurata dai G20, dalle agenzie dell’Onu e da numerose organizzazioni regionali, muove comunque passi importanti, osservano Comin e Speroni sulla base di un ampio lavoro di documentazione.
Non è certo la soluzione ottimale, di fronte alla “tempesta perfetta” che sta per piombarci addosso, ma sbaglia chi crede che la governance non serva a niente. E le agenzie dell’Onu non sono solo dispendiose burocrazie: in questi cinquant’anni hanno fatto da levatrici a oltre 500 trattati internazionali, dai diritti umani all’antiterrorismo, dalla repressione del crimine al trattamento dei rifugiati, dal disarmo alle materie prime e al regime degli oceani.
Già oggi dunque la global governante spazia su campi innumerevoli, dagli scambi culturali alla lotta al terrorismo: basta aggirarsi nelle decine e decine di siti web delle agenzie dell’Onu (che comunque sono solo una parte delle organizzazioni internazionali attualmente operanti) e nei loro sottositi tematici per comprendere la vastità della rete di patti e istituzioni che avvolge il mondo. É una rete piena di smagliature, ma è anche una rete di speranza.
Il ruolo dell’Europa
Quale ruolo possiamo svolgere noi europei in un mondo che si polarizza su aree geografiche in grado di esprimere con molta più forza una propria volontà di potenza? Saremo davvero il vaso di coccio del mondo del 2030? Il sito “Future Timeline”, arriva a ipotizzare il collasso dell’Unione Europea tra il 2035 e il 2040, ma forse gli europei di fronte alle nuove sfide saranno capaci di una risposta politica comune, anche perché le istituzioni hanno una loro forza che alla lunga può prevalere. Giuliano Amato in una recente intervista ha spiegato che l’eurozona non è solo un’area di cooperazione rafforzata tra alcuni Paesi dell’Unione, ma è il nucleo fondante di un’Europa integrata. La crisi dei debiti sovrani ha dimostrato che l’Europa non può più fermarsi in mezzo al guado. Se l’euro sopravvive, necessariamente comporterà istituzioni più forti e politiche comuni che si estenderanno anche ai Paesi dell’Unione che finora non hanno adottato la moneta comune.
Gli europei saranno anche avvantaggiati dalla eccezionale posizione geostrategica del Vecchio continente. Questo è un aspetto che non siamo abituati a considerare, ma il ragionamento è sviluppato con chiarezza nel manuale dei guru di management Hermann Simon e Danilo Zatta: “da un punto di vista mondiale il ‘Regno di Mezzo’ non è la Cina, ma l’Europa occidentale”. In termini sia di fuso orario che di ore di viaggio, Roma (o Parigi) è più vicina a Singapore che a New York. É vero che i mercati funzionano 24 ore su 24, ma la gente ha anche bisogno di parlarsi di persona o quanto meno al telefono: dall’Europa, le “finestre” di orari quotidiani in cui gli uffici sono aperti anche negli Stati Uniti o in Estremo oriente sono certamente più ampie.
Comunque si evolvano in futuro le sue strutture politiche, l’Europa manterrà una centralità in tutti i processi di globalizzazione, sarà il cuore delle reti che potrebbero cambiare il mondo. Non basta per dirci soddisfatti, perché le conseguenze della debolezza politica europea sono quotidianamente sotto i nostri occhi, dalla crisi dei debiti sovrani, che forse si poteva evitare se l’Europa avesse avuto non solo una politica monetaria, ma anche una politica economica comune, all’incerta conduzione nelle crisi internazionali. É però un’opportunità che soprattutto i giovani non devono trascurare, per evitare che l’Europa finisca davvero come previsto dai futurologi di Timeline.
Di fronte alle politiche contrapposte delle altre grandi aree geografiche e ai nazionalismi di molti paesi in via di sviluppo, noi europei, scrivono gli autori, per cultura e per posizioni geopolitiche, possiamo essere il cuore di un movimento di costruzione della fiducia reciproca. Di fronte agli opposti egoismi, sarebbe giusto che dall’Europa partisse l’impegno a costruire un modello di mondo sostenibile per un’umanità di 9 miliardi di persone. E l’Italia? Per storia, per cultura, per creatività, il nostro Paese potrebbe avere un grande ruolo, ma per svolgerlo sarebbe necessario guardare oltre le beghe e i problemi contingenti, esprimere una classe dirigente in grado di visione strategica.
La misura del progresso
Per definire nuove priorità non basta fare affermazioni di principio. É necessario che le priorità siano misurabili statisticamente e possano tradursi in obiettivi condivisi. La misura della produzione di ricchezza espressa dal Pil, Prodotto interno lordo, deve essere integrata con misure di benessere e di sostenibilità ambientale e sociale. Così come sta imparando a misurare i rischi per l’ecosistema, l’umanità deve anche imparare a misurare i rischi per gli equilibri sociali.
Gli indici statistici dunque, lungi dall’essere semplici armi retoriche da brandire nelle tribune politiche televisive, sono invece strumenti complessi, importanti per la natura stessa delle nostre democrazie. Le politiche del Ventunesimo secolo non devono porsi soltanto l’obiettivo di far crescere la ricchezza e quindi il benessere economico dei cittadini, ma anche la loro soddisfazione globale. Non è un concetto del tutto nuovo: il diritto dei cittadini a ricercare la felicità era già sancito nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776. È nuova, però, l’insistenza con cui il termine “felicità” è entrato nel vocabolario politico. Mass media e uomini di governo preferiscono parlare di happiness anziché di benessere. Persino il premier cinese Wen Jiabao ha annunciato al Congresso del partito comunista del marzo 2011 che la felicità dei cittadini è un obiettivo del buongoverno. E i cinesi non si sono limitati alle proclamazioni: da qualche anno in alcune province avevano introdotto un indice della felicità basato su sedici parametri e lo hanno utilizzato per decidere se promuovere i dirigenti locali del Partito.
Bastano i calcoli sulla sostenibilità nelle sue diverse declinazioni per dirci se siamo o no in grado di affrontare il futuro? Certamente no. Sarebbe come se volessimo misurare le prospettive di un’impresa soltanto dai suoi bilanci. Stato patrimoniale e conto economico ci diranno se quell’impresa sa proteggere la ricchezza affidatale dagli azionisti, se è in grado di produrre valore, ma nulla ci potranno dire sulle sfide del futuro, sulla evoluzione dei mercati in cui quella impresa dovrà operare.
La vera questione, scrivono Comin e Speroni, è dunque la seguente: è davvero possibile un modello mondiale di previsione sociale? É difficile – anche perché dobbiamo sapere che ci sono forze economiche, sociali e culturali all’opera per smontare l’idea della insostenibilità del sistema attuale – ma non impossibile. Servirebbe, secondo il presidente dell’Istat Giovannini, un’operazione come l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) in grado di riunire permanentemente i migliori scienziati con il consenso dei governi, questa volta per discutere non solo di clima, ma di sostenibilità complessiva. Quest’approccio andrebbe poi replicato e utilizzato a livello nazionale, dove avvengono i cambiamenti politici effettivi. Servirebbe per i sistemi economici, sociali e ambientali qualcosa di simile a quello che è stato per l’economia il modello mondiale Link, elaborato nel 1969 dall’economista Lawrence Klein, e che ancora oggi attraverso la collaborazione delle istituzioni nazionali fornisce modelli collegati per quasi 80 Paesi. É attraverso un processo analogo che possiamo elaborare indicatori di rischio attendibili anche per la popolazione umana nel suo complesso.
Analogamente, lo Stockolm Memorandum dei premi Nobel parla di “un nuovo contratto tra scienza e società”. È necessario «lanciare una grande iniziativa di ricerca sulla sostenibilità globale del sistema Terra, in una dimensione paragonabile a quella dedicata ad aree come lo spazio, la difesa e la salute, per valorizzare tutte le risorse di creatività interdisciplinare disponibili in tutto il Globo».
Per ulteriori informazioni visita il sito www.2030latempestaperfetta.it.

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