Pandemia influenzale: è vera crisi per le aziende?
17/09/2009
Esiste davvero la necessità di “vaccinare” le aziende con un piano di gestione della pandemia influenzale (crisis plan) o è solo un modo per speculare sulla salute delle persone e sulla paura? È sul panico che dev’essere basato il lavoro del comunicatore di crisi? Dal caso dell’influenza A/H1N1 le domande di Luca Poma sulla responsabilità dei professionisti della comunicazione.
di Luca Poma
Un amico dirigente di una società di selezione del personale – se non la prima al mondo, una delle prime tre – sapendo che da anni mi occupo di crisis communication mi ha inviato via e-mail un memo sul rischio pandemia influenzale per le aziende – breve ma esaustivo – della Protiviti, una società internazionale di internal audit che sul proprio sito propone – tra le altre cose – servizi di risk management. Protiviti offre un ventaglio piuttosto ampio di consulenze: dall’analisi dei rischi finanziari alla gestione delle transazioni legali, dai servizi di information technology al monitoraggio dei rischi di frode.
Nel flash memo che ho letto ricorre molte volte la parola “crisi”: in effetti è di moda dire di occuparsi di crisi, da l’idea di “esserci sempre”, di poter garantire al Cliente tempi di risposta immediati ed una soluzione sempre pronta al problema. Chi tra i colleghi si occupa davvero di crisis avrà già un sorriso sarcastico sulla bocca: sappiamo tutti cosa significa venir svegliati nel pieno della notte per un problema davvero serio, e mettere a frutto quei due anni di simulazione di scenari per rispondere rapidamente ed efficacemente al problema in poche mezze ore.
Ma torniamo al rischio di pandemia influenzale per le aziende. Il flash memo di Protiviti cavalca l’onda snocciolando dati: già 7.000 casi di contagio in Italia, e possibili previsioni di un terzo della popolazione statunitense a letto di qui agli inizi del 2010. Rischio di collasso delle attività aziendali. Necessità di portarsi subito avanti con il lavoro, “vaccinando” le aziende con un piano di gestione della pandemia influenzale (crisis plan), sia preventivo con un’adeguata Business Impact Analysis, che correttivo, per garantire la business continuity.
“Una pandemia, infatti, non è una semplice forma di influenza – afferma il memo Protiviti – ma un’affezione che può coinvolgere una quota significativa del personale di un’azienda, mettendo a rischio la continuità dei processi operativi. Ecco – prosegue il memo – alcuni possibili scenari:
• una quota rilevante del personale potrebbe ammalarsi e non essere in grado di recarsi al lavoro;
• alcuni dipendenti potrebbero rimanere a casa per evitare contatti e ridurre il rischio di contagio o per assistere i congiunti ammalati;
• altri potrebbero non essere disposti a intrattenere rapporti con il pubblico ed i clienti dell’azienda, per ridurre il rischio di ammalarsi;
• uno o più fornitori di servizi in outsourcing potrebbero non essere nelle condizioni di rispettare i livelli di servizio concordati”
Protiviti illustra poi nel memo schemi descrittivi delle tipologie di intervento necessarie ed opportune, servizi certamente erogati dalla suddetta società ad un prezzo adeguato al pericolo di crisi incombente (!).
Ebbene, l’orologio fa le due di notte quando scarico il flash memo del quale vi ho accennato, ma ci terrei comunque a fare una riflessione di carattere professionale ed una di carattere etico, su questa bislacca questione.
Tutto ciò sarebbe apprezzabile e degno del massimo interesse… se solo fosse vero. Esaminiamo i dati in nostro possesso per farci un’idea indipendente circa il pericolo di crisi da pandemia per le aziende, italiane e non solo, esaminando i contenuti di alcuni documenti a firma di autorevoli medici, primo tra tutti la “Lettera aperta dell’Associazione Culturale Pediatri sul rischio da pandemia influenzale”, pubblicata poche settimane fa ed egregiamente commentata proprio questo weekend in un articolo di stampa del dott. Eugenio Serravalle, Specialista in pediatria preventiva e patologie neonatali.
L’epidemia, iniziata in Messico nel 2009, è di modesta gravità: il virus A/H1N1 si è dimostrato meno aggressivo della comune influenza stagionale. Si manifesta come qualsiasi forma influenzale: febbre, mal di testa, dolori muscolari, nausea, diarrea, tosse. I test rapidi per identificare il virus dell’influenza pandemica hanno poca sensibilità (dal 10 al 60%) ed il test quindi non può garantire con certezza che si tratti di influenza A/H1N1. Sembra essere un virus particolarmente contagioso, ed è stato dichiarato lo stato di pandemia: la sola parola pandemia fa paura.
Peccato che questa definizione sia stata appositamente modificata, facendo scomparire il criterio della “gravità”, cioè della reale mortalità che la malattia può provocare. La nuova influenza può colpire più persone come numero – pare – ma provoca meno morti di qualunque altra influenza diffusasi nel passato. La mortalità – ossia il numero di persone morte rispetto ai casi segnalati – registrata finora nei paesi dove l’A/H1N1 è circolata ampiamente, è dello 0,3% in Europa e dello 0,4% negli USA, e potrebbe essere a conti fatti ancora inferiore, poichè alcuni decessi possono essere dovuti ad altre concause e non al virus di per se: patologie croniche, malformazioni organiche, malattie immunitarie, etc.
In Gran Bretagna sono stati registrati 30 morti su 100.000 casi, e negli USA solo 302 su un 1.000.000 di casi. Finora nel mondo intero si sono registrati 2.501 decessi. Per fare un paragone, si calcola che in Spagna durante un inverno normale i decessi per influenza stagionale siano da un minimo di 1.500 ad un massimo di 3.000. Negli USA ogni anno muoiono per influenza stagionale circa 3.600 persone sotto i 65 anni, mentre finora ne sono morte 324 nella stessa fascia di età per la pandemia. In Australia ogni anno per l’influenza stagionale muoiono circa 310 persone sotto i 65 anni: ad inverno australe ormai terminato, ne sono morte 132 per la pandemia…
Eppure, nonostante questi dati incontrovertibili, i mezzi di informazione – ed anche i memo come quello della Protiviti! – creano il panico. È forse un tipico esempio di “invenzione di malattia” (il “disease mongering”, aggressiva pratica di marketing all’ordine del giorno per i colossi del farmaco)? Non si tratterebbe certo della prima volta. Nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva previsto fino a 7 milioni di morti per l’influenza aviaria: i morti furono 262. Si trattò solo di un gravissimo errore di previsione, si chiedono i medici pediatri?
Secondo una delle maggiori banche di affari del mondo (JP Morgan) l’attuale vendita di farmaci anti-influenzali e di vaccini – la cui efficacia e sicurezza sono ancora tutte da dimostrare! – muoverebbe un giro d’affari di oltre 10 miliardi di dollari…
I medici di più saggia esperienza consigliano alle aziende timorose per la loro business continuity alcune banali ma sempre efficaci attenzioni preventive: una buona idratazione nell’orario di lavoro, una alimentazione adeguata nella pausa mensa, un’igiene corretta, invitare i dipendenti a non tossire davanti ai colleghi senza riparare naso e bocca, lavarsi le mani spesso ed accuratamente con acqua e sapone, etc., e non è neppure dimostrato che l’uso di mascherine serva a limitare la propagazione dell’epidemia in azienda…
Val la pena allora speculare sulla salute delle persone e sulla paura? È questo il ruolo di un esperto di crisis management? E mi domando ancora: come può una società di consulenza internazionale candidarsi alla gestione efficace su larga scala di una crisi, quando non pare neppure capace di “leggere” i dati essenziali per la previsione dello scenario in discussione? È una contraddizione in termini.
Forse solo gli ospedali potrebbero giovarsi dei protocolli di crisi elaborati da società come la Prodiviti, dal momento che – se continua così – l’ingiustificato accesso della popolazione alle strutture sanitarie non potrà che crescere, intasandole. Anche grazie – nuovamente – ai messaggi veicolati a tutti i livelli da coloro che vedono in questo scenario una crisi da fomentare per fare new business.
Creare malattie genera business per le farmaceutiche, così come creare panico genera business per i consulenti. Se non ci sono questi elementi – direbbe qualcuno – perché non “inventarli”?
Vorrei quindi concludere con una riflessione di carattere più squisitamente etico, che chiama a rapporto quel minimo di dignità professionale che ancora dovrebbe pregnare gli addetti ai lavori di questo settore: è mai possibile che ogni occasione venga considerata opportuna per fare soldi? Il fine giustifica sempre i mezzi? È sul panico che dev’essere basato il lavoro del comunicatore di crisi? Siamo forse qui per stimolare surrettiziamente i più profondi timori dei nostri Clienti al fine di ottenere un mandato redditizio?
Non posso credere ed accettare che sia questa la vision di un professionista del settore degno di questo nome. Il lavoro di chi si occupa di crisis management è metodico, ragionato, basato sull’analisi di possibili scenari realisticamente plausibili di crisi e sull’elaborazione di strumenti adeguati a fronteggiarle. Non possiamo essere la “Novella 3000” della comunicazione: è discutibile, forse indegno.
Posso certamente – se mi applico – trovare qualche Cliente pronto a darmi un mandato per elaborare strumenti di gestione di una crisi in caso di sbarco dei marziani (chi può dire che – ancorché remotissima – l’ipotesi sia a priori totalmente da scartare?), ma la domanda è innanzitutto questa: è leale farlo?
Qualcuno in precedenti occasioni ha suggerito la creazione di un organismo di autogoverno per i professionisti del nostro settore: sempre più indizi mi suggeriscono che forse è arrivato il tempo per istituirlo.