/media/post/gehaq9u/az.png
Ferpi > News > Anglicismi e parole in cammino. Ma la meta qual è?

Anglicismi e parole in cammino. Ma la meta qual è?

28/04/2019

Letizia Pini

A margine dell’ultima edizione di Parole in Cammino, il Festival dell'italiano e delle lingue d'Italia, che si è svolto con il patrocinio, fra gli altri, di Ferpi, la delegata Ferpi Toscana, Letizia Pini, ha chiesto un commento sui temi della manifestazione ad Antonio Zoppetti, docente, autore, curatore del sito Diciamolo in Italiano, interamente dedicato al tema degli anglicismi e delle commistioni dell’inglese nella nostra lingua. 

La terza edizione di Parole in Cammino si è appena conclusa ma la sua eredità è ancora più preziosa in termini di riflessioni e provocazioni e continua a farsi sentire. Incuriosita e abbastanza toccata da alcuni interventi che si sono succeduti nella quattro giorni senese ho chiesto ad alcuni relatori di dare uno spaccato semiserio, ma tristemente vero, a tutti noi comunicatori la cui cassetta degli attrezzi prevede l’uso incondizionato e imprescindibile delle parole a cui spesso va l’impiego smodato a discapito della ricchezza della nostra lingua madre anche se, ovviamente, la contaminazione di altre lingue simboleggia la modernità del nostro dire e la moda di espressione, come a testimoniare un essere più bravi e professionali, diciamo, un saperne di più! Questo articolo vuole davvero essere una provocazione ma c’è molto di fondato e deve indurre ad una riflessione molto seria perché come Pulcinella si confessò burlando, forse anche noi potremmo fare un  mea culpa e tornare ad un utilizzo dei vocaboli nostrani senza per forza sentirci inferiori. Ho chiesto così ad Antonio Zoppetti - docente, autore, curatore del sito Diciamolo in Italiano, interamente dedicato al tema degli anglicismi, che ha realizzato il dizionario AAA: Alternative Agli Anglicismi, che raccoglie e classifica oltre 3.600 parole inglesi che circolano nella nostra lingua affiancate dalle spiegazioni e soprattutto dalle alternative e dai sinonimi italiani - di farci una panoramica delle nostre “paranoie linguistiche”, quali, come, e soprattutto, perché utilizziamo alcuni termini e se, per caso, non fosse possibile esprimerci in “italianese” e capirci ugualmente, anzi meglio! Prendiamoci un po’ in giro, se rimanete ma riflettiamoci su!

di Antonio Zoppetti (*) 

Nel mezzo degli step di nostra vita
mi ritrovai in location oscura,
che la best practice si era smarrita.
Ahi a dirne about è cosa dura
on the road selvaggio sì hard e forte
che nel mio inside rinova la paura!
Tant’è strong che il benchmark è la morte;
ma per il tracking del good ch’i’ vi trovai,
dirò delle altre news ch’i v’ho scorte.

Questo remake è abbastanza esaustivo per comprendere cos’è il fenomeno chiamato “itanglese”? 
Il numero degli anglicismi che circolano nella nostra lingua è tale che è ormai possibile trasformare la Commedia, un tempo Divina, in tragedia (o forse drama e horror). La possibilità che l’italiano diventi un Infernal tour è concreta, ma dipende da tutti noi e da come decidiamo di parlare (intanto, nei palinsesti televisivi la commedia è già diventata comedy e situation comedy).

Le lingue vive evolvono, certo, ma come? Le lingue vive evolvono insieme al mondo che cambia, anche attingendo parole da altre lingue, ed è un bene che lo facciano! I forestierismi possono essere una ricchezza, che qualcuno ha proposto di chiamare “doni”, invece di “prestiti”, visto che le parole straniere di solito non si restituiscono. Ma la questione della lingua, nel nuovo Millennio, è un’altra, dobbiamo chiederci: come la lingua italiana si sta evolvendo? Il punto è che c’è un’abissale differenza tra i prestiti dall’inglese e quelli dalle altre lingue. Le migliaia e migliaia di parole francesi che nei secoli ci hanno arricchiti sono state in larga misura italianizzate (almeno nel 70% dei casi, stando al Gradit 1999 di Tullio De Mauro). Quelle che provengono dall’inglese sono invece “crude”, e per ben oltre il 70% circolano senza adattamenti. Sono un fenomeno recente, iniziato nel Secondo dopoguerra e in continua crescita. Se nel Devoto Oli del 1990 si contavano 1.600 anglicismi crudi, oggi, in poco meno di trent’anni ce ne sono almeno 3.500, mentre i substrati plurisecolari delle altre lingue ci hanno lasciato un migliaio di francesismi non adattati, un centinaio di ispanismi o germanismi e poche manciate di parole di altra provenienza. La metà dei neologismi del nuovo secolo, secondo Zingarelli e Devoto Oli, sono in inglese, il che significa che gli anglicismi stanno sempre più coincidendo con i neologismi, e dunque è lecito domandarsi se la nostra lingua non stia perdendo la capacità di evolvere con parole proprie, davanti ai cambiamenti del mondo. Non si tratta di fare i puristi, il problema è che le parole inglesi sono “corpi estranei”, per dirla con Arrigo Castellani, e il loro accumularsi sta snaturando profondamente i suoni e l’ortografia dell’idioma del “bel paese là dove 'l sì suona”. In molti ambiti come l’informatica, l’economia, la moda e la scienza è ormai inevitabile praticare l’itanglese. E nel mondo del lavoro, della comunicazione o delle relazioni pubbliche (preferibilmente dette “pr”) le cose non sono molto diverse.

Tutti gli alibi dell’itanglese

Per giustificare questo nuovo “italiano” ci appelliamo a molti alibi. Il primo è quello dei cosiddetti “prestiti di necessità”, le “parole mancanti” o “intraducibili”. Eppure nulla è intraducibile, in teoria. Ricorrere agli anglicismi è invece una ben precisa scelta perpetrata dai mezzi di informazione, dalla nostra classe dirigente e anche da noi, quando preferiamo usare i termini inglesi. In passato, prevaleva la soluzione di italianizzare (grattacielo da skyscraper, bistecca da beefsteak). Davanti a una parola che non c’è si può anche coniare un neologismo (i marshmallow nella traduzione dei Peanuts diventarono toffolette) o recuperare una vecchia parola allargandone il significato (singolo significa oggi anche scapolo, oltre che unico, per l’interferenza di single). Queste soluzioni non violano la nostra identità linguistica. Ma se la rivoluzione industriale del passato ci ha lasciato la lampadina e la televisione, non certo la lamp e la television, quella del digitale ci satura di anglicismi. Ci vergogniamo di adattare smartphone in smarfono o di reinventarlo in furbofonino, queste soluzioni ci appaiono impraticabili, stravaganti e ridicole. Dunque non è solo per pigrizia (altro alibi) che ricorriamo all’inglese, ma perché ci piace, ed è ormai la strategia principale di far evolvere la nostra lingua verso la modernità.

Tra gli alibi c’è anche dire che l’inglese è una lingua sintetica e più incisiva, che spesso sa esprimere concetti con comodi monosillabi (boom, fan, gay, scoop, staff, stress, star, shop, show). È vero, ma la lingua non è matematica, e anche questa spiegazione non basta, altrimenti non useremmo un impronunciabile misunderstanding al posto di equivoco/fraintendimento, non percepiremmo leader come più appropriato di capo, e non è certo per risparmiare una “e” finale se diciamo mission, vision o competitor.

Un altro luogo comune è che si ricorre all’inglese per essere internazionali, ma anche questo non è esatto, usiamo l’inglese per sentirci “americani”. Crediamo di essere internazionali dicendo computer? Siamo solo provinciali. In francese è ordinateur, in spagnolo ordenador/computador, in portoghese computador, in greco υπολογιστών, in rumeno calcolator, in slovacco e in ceco počítač, in finlanese tietokone, in norvegese datamaskin, nello svedese dator, in turco bilgisayar, in croato računalo, in ungherese számítógép, in islandese tölva, nell’afrikaans rekenaar. E chi ricorre alla voce inglese spesso la adatta, come nel polacco komputer o nell’albanese kompjuter. E allora per essere internazionali dovremmo forse fare come gli altri: usare la nostra lingua. Il global english avanza in tutto il mondo, ma la nostra reattività di fronte all’espansione della lingua delle multinazionali è zero, rispetto a quella dei francesi o degli spagnoli.

La verità è che l’inglese è di moda. Ma anche questa affermazione non è del tutto sufficiente, mi pare, anche perché le mode sono passeggere, quella dell’inglese dura ormai da 70 anni. Freud considerava il linguaggio la spia dell’inconscio e credo che dietro alla “moda” si nasconda un complesso di inferiorità, culturale e linguistico.

Il complesso di inferiorità e le vergogne dell’italiano

Manager porta con sé l’efficienza e il prestigio americano, rispetto a dirigente o responsabile, osservava Gian Luigi Beccaria. Oggi consideriamo l’angloamericano una lingua superiore, sacra e inviolabile: italianizzare è diventato un sintomo di ignoranza, invece che un segno di adattamento ai nostri suoni, alle nostre radici e alla nostra cultura, come avviene nelle lingue sane. Se in Francia e in Spagna è normale pronunciare wi-fi “uifì” e “uìfi”, noi diciamo invece “uai-fai”. In francese la frequenza di football e camping è alta ma si pronunciano alla francese, accentate sull’ultima, in modo naturale e senza vergogna. Da noi gli adattamenti fonetici storici che ci arrivavano per via scritta ed erano pronunciati all’italiana, come club o jumbo, oggi sono pronunce “errate”. Nel 1933 Paolo Monelli scriveva che puzzle è un termine “inglese di brutto suono così come è pronunciato generalmente da noi”, ma senza andare così indietro nel tempo, negli anni ’70, i bambini cantavano ancora che il buco nella gomma della macchina del capo si riparava con il “chewingum” pronunciato come scritto, e non certo “ciùingam” come si canta oggi.

Tutto ciò non si può liquidare con le categorie ingenue dei “prestiti”. Questa è un’emulazione che va al di là delle singole parole, e infatti gli anglicismi non si possono più ridurre a un elenco di termini, sono una rete di radici che si espande nel nostro lessico e si struttura in famiglie che si allargano. Secondo Valeria Della Valle: “Tra il 2008 e il 2018 (...) sono apparse 15 nuove parole composte da food e solo 2 da cibo; hanno fatto il loro ingresso 17 termini con gender contro 13 con genere, stessa cosa per smart, che ha la meglio sulla sua traduzione italiana, intelligente”. Ciò significa che vogliamo fare gli americani come nella canzone di Renato Carosone. E siccome gli anglicismi non ci bastano, per sentirci più trendy (si può dire anche in, cool per suggerire subliminalmente dove prendiamo l’inglese) ci inventiamo parole che suonano inglesi anche se non lo sono affatto. Pseudoanglicimi come beauty case, slip, pile, autostop,  footing… non esistono nei Paesi anglofoni. In questi casi non conta che sia inglese, ma che suoni inglese. E allora basket ha ultimamente la meglio su pallacanestro, ma si dovrebbe dire basketball, da solo vuol dire semplicemente cesto. In queste decurtazioni maccheroniche diciamo spending, invece di spending review, con il curioso risultato di esprimere esattamente il contrario di quel che vorremmo, e cioè la spesa e non la sua revisione o taglio! Visto che l’inglese è conosciuto da una minoranza degli italiani, stando alle statistiche, sembra quasi che meno si sappia e più lo si ostenti, in un’Alberto-Sordità (di Un americano a Roma) che ha perso però la sua componente ironica. E così abbandoniamo le nostre parole storiche per dirle in inglese, e  i cosiddetti “prestiti di lusso”, si trasformano inevitabilmente in “prestiti di necessità”, come è accaduto a calcolatore o ed elaboratore: dagli anni ’90 è possibile dire solo computer. Autoscatto prima indicava un sistema collegato a un filo, poi si è allargato insieme all’evoluzione delle tecnologie a indicare i dispositivi elettronici a tempo, ma oggi l’allargamento di significato si è interrotto: gli autoscatti fatti e condivisi con il telefonino si dicono selfie. Sui giornali pusher sta sostituendo sistematicamente spacciatore, e killer assassino. Insomma, gli anglicismi sempre più spesso diventano “prestiti sterminatori” che fanno regredire le nostre parole e viene da chiedersi per quanto tempo potremo continuare a dire parrucchiere invece di hair stylist o trucco invece di makeup senza che suonino come un linguaggio da “vecchie signore cotonate”.

Moderni e “fighi” o poveri e ridicoli?

A questo punto le cose sono forse più chiare. Ricorrere all’inglese è una ben precisa strategia. Quando diciamo street food invece di cibo di strada, le motivazioni sono extralinguistiche o sociolinguistiche: lo facciamo per elevarci. Ma le conseguenze della massimizzazione di questo “elevarci” hanno delle ricadute pesanti. I troppi anglicismi non sono più una ricchezza, si trasformano al contrario nel depauperamento della nostra lingua. Questa strategia di ricorrere all’inglese mi pare la “strategia degli Etruschi” che si sono assoggettati alla romanità, che evidentemente consideravano una cultura superiore, sino a esserne inglobati e scomparire. Dacia Maraini ha usato una bellissima metafora per descrivere la questione: se un granello di sabbia entra in un’ostrica viene lavorato e produce una perla. Ma se riempiamo l’ostrica di sabbia, muore.

Decidere di erogare corsi di acting invece che di recitazione, come sta avvenendo in qualche scuola, significa contribuire ad acclimatare un anglicismo come superiore e a svilire la tradizione italiana come qualcosa di “vecchio”. E così ci sentiamo “fighi” nel dire che dobbiamo fare un brief in conference call con la business unit, ma poi non facciamo altro che parlare al telefono con Carmelo e Giuseppe, per dirla con Annamaria Testa. Forse dovremmo sentirci ridicoli. Che bisogno c’è, tra italiani, di ricorrere a espressioni come “non sono nel mood” (invece di stato d’animo, umore, atmosfera, predisposizione, spirito...)? Perché parliamo di location (quanto ci piacciono i suoni in -escion, come nella Svalutation di Celentano) quando potremmo dire posto, luogo, sede, ubicazione, collocazione, zona, area, posizione, sfondo, ambientazione  a seconda dei contesti? Ecco il segno dell’impoverimento dell’italiano, una lingua ricca di sinonimi e di varietà che abbandoniamo davanti alla stereotipia del monolinguismo basato sull’inglese. Questo è hard (o è strong), quest’altro è più soft. Espressioni come queste sono frasi fatte che si applicano a qualunque contesto in un appiattimento comunicativo sempre più in voga. E pensare che l’italiano è una lingua molto amata nel mondo, e nella versione originale del film Un pesce di nome Wanda la protagonista perdeva ogni inibizione quando sentiva parlare in italiano (nell’edizione italiana la scena è stata sostituita dallo spagnolo). La nostra lingua è sexy e ha un certo appeal, per tradurre il concetto in itanglese (si potrebbe dire sensuale, accattivante, fascinosa, affascinante, attraente, seducente, ammaliante, incantevole, allettante, stuzzicante, di richiamo, irresistibile... persino intrigante, per ricorrere a un’interferenza dell’inglese che non snatura i nostri suoni), ma la pratichiamo sempre meno. In Italia si moltiplicano le insegne dei Wine bar, nei ristoranti di lusso di New York si dice vino, perché è quella la parola che evoca l’eccellenza del prodotto.

Occorre una rivoluzione culturale

Per fermare questo restyling dell’italiano occorrerebbe una rivoluzione culturale. Dovremmo interrogarci su questo cammino delle parole per renderci conto di dove stiamo andando. Dovremmo smettere di vergognarci della nostra lingua e riappropriarcene con orgoglio.

Questo è quello che da qualche anno sto provando a fare, nel mio piccolo. Attraverso i miei libri, i miei siti e con tutte le mie forze. Ho creato un dizionario gratuito in Rete che raccoglie oltre 3.600 anglicismi che circolano nella nostra lingua affiancati dalle alternative e dai sinonimi italiani, possibili e in uso, ed è diventato una comunità in cui i lettori segnalano nuove parole inglese e traducenti. Mi batto per la circolazione e la diffusione dell’italiano perché in molti casi stiamo perdendo la capacità di pensare in italiano, e spesso diciamo “qual è il tuo budget”, “aspetto un feedback”, “dammi il timing” come fossero  espressioni “necessarie”. Non ci viene più spontaneo dire “qual è il tuo tetto di spesa“ (disponibilità, spesa massima, fondo), “aspetto un riscontro” (risposta, parere, cenno), “dammi la tua tempistica” (tabella di marcia, agenda, calendario, scadenze). Ognuno parla come vuole, naturalmente, ma per poter scegliere, è necessario che le alternative circolino, altrimenti diventeranno sempre più obsolete fino a essere inutilizzabili. Il mio lavoro è sicuramente perfettibile, ma è già qualcosa e nessuno lo aveva fatto, nel nostro Paese. In Francia e in Spagna lo fanno le Accademie e le istituzioni, con campagne pubblicitarie e anche con le leggi. La Svizzera ha stanziato enormi fondi per la promozione dell’italiano. Lì il question time si chiama l’ora delle domande, in Parlamento e sui giornali del Ticino, e mentre a Milano l’azienda dei trasporti diffonde il pagamento contactless senza alternative da loro si chiama pagamento senza contatto.  Le politiche linguistiche son normali all’estero, dall’Islanda alla Cina. In Italia non c’è nulla di tutto ciò e sembra che nessuno abbia da obiettare se salvaguardiamo il nostro patrimonio artistico, storico, culturale, culinario e le nostre eccellenze. Ma il patrimonio linguistico è fuori. Non interessa alla politica, che al contrario anglicizza il suo linguaggio della comunicazione (l’ultima è il navigator) e persino istituzionale (dalla privacy al welfare). Non resta che provare a fare cultura “dal basso”, in modo indipendente e probabilmente velleitario, ma ci voglio almeno provare. Per questo ho partecipato con entusiasmo al concorso “Parole in cammino” di Massimo Arcangeli, in fondo va nella mia stessa direzione. Fa riflettere sull’importanza di recuperare le nostre radici, anche attingendo dai dialetti. Invita a proporre soluzioni creative per via endogena. Per questo ho dato vita all’iniziativa culturale “Attivisti per l’italiano” contro l’abuso dell’inglese. Praticare l’italiano è l’unico sistema per farlo vivere. Usare le alternative è il solo modo per farle circolare e fare in modo che rimangano in uso. Scegliere gli equivalenti italiani non significa essere puristi, ma amare la nostra lingua. E a chi si occupa di comunicazione o di relazioni pubbliche vorrei ricordare che a volte, se tutti lo dicono in inglese, sfoggiare l’italiano può essere un segno per distinguersi. Non lo sottovaluterei, soprattutto quando si vuole arrivare a tutti e il destinatario (oggi diventato target) non è internazionale.




(*) Antonio Zoppetti ha curato il riversamento in cd-rom del Devoto Oli 1990 (il primo completo dizionario digitale italiano, Editel/Le Monnier, 1993). Nel 2004 ha vinto il “Premio Alberto Manzi” per la comunicazione educativa. È autore di vari libri sulla lingua italiana e sul tema degli anglicismi ha pubblicato L’etichettario. Dizionario di alternative a 1.800 parole inglesi (Franco Cesati Editore, 2018) e Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla (Hoepli, 2017). In Rete cura il Dizionario AAA. Alternative Agli Anglicismi, con oltre 3.600 parole inglesi, dal 2017 gestisce il sito Diciamolo in italiano ed è co-fondatore dell’iniziativa culturale “Attivisti per l’italiano” contro l’abuso dell’inglese

Eventi