C’è chi dice no (e sono sempre di più…)
27/04/2011
Vecchi problemi e nuovi paradossi alimentano la sindrome Nimby che ora colpisce anche gli impianti a fonti rinnovabili: _Sergio Vazzoler_ ne indaga le cause intervistando _Alessandro Beulcke,_ Presidente di Aris, l’Associazione che “scatta” la fotografia delle contestazioni locali, a margine dell’edizione 2011 dell’Osservatorio Nimby Forum.
di Sergio Vazzoler
La sesta edizione del vostro osservatorio conferma ancora una volta come la crescita della sindrome Nimby non conosca tregua. Nell’ambito di questo trend negativo, ci sono degli indicatori nuovi che meritano una sottolineatura?
Innanzitutto sottolineerei il dato principale: gli impianti contestati raggiungono, nel 2010, quota 320, con una crescita del 13,1% rispetto al 2009. La prima edizione del Nimby Forum, datata 2004, ne aveva censiti 190. Dei 320 casi censiti nello scorso anno, più del 10% era già stato rilevato nella prima edizione dell’Osservatorio: ci sono 36 impianti che da sei anni non fanno un passo avanti. Non è difficile immaginare cosa possa significare questo dal punto di vista imprenditoriale. I dati di Nimby Forum ci raccontano anche un altro dettaglio relativo a 24 impianti contestati e abbandonati nel corso del 2010: nel 41,7% dei casi le procedure di autorizzazione non sono neppure state avviate, nel 25% non è stato ottenuto il via libera da parte degli enti cui compete il rilascio dell’autorizzazione e nel 29,2% i progetti sono stati abbandonati con iter autorizzativo in corso.
Infine, il dato più eclatante e sintomatico. Se è confermato che gli impianti per la produzione di energia elettrica siano primi nella classifica generale (48,1% che raggiunge il 58,1% se aggiungiamo elettrodotti, gasdotti, rigassificatori…), stupisce invece che all’interno di questo stesso settore siano gli impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile quelli più contestati. Pur considerando che tra questi molti sono di piccola e piccolissima taglia, lo scarto è comunque considerevole: sono infatti 133 gli impianti “rinnovabili” contestati (86,4%) contro i 21 (13,6%) legati alle fonti fossili.
Che interpretazione dai al paradosso della parallela contestazione nei confronti degli impianti di produzione di energia fossile e di quelli da fonti rinnovabili?
Possiamo parlarne come di un paradosso, ma in realtà è un elemento profondamente sintomatico della natura del fenomeno Nimby nel nostro Paese. Certo, il dato va letto tenendo presenti, come detto prima, i tratti salienti della produzione rinnovabile, caratterizzata da una molteplicità di impianti, di piccole dimensioni, distribuiti in maniera diffusa sul territorio. Va inoltre sottolineato che una buona percentuale di questi è costituita da centrali a biomasse che, per un generale deficit di cultura scientifica, spesso vengono confusi con degli inceneritori. Ciò detto, il “paradosso” resta. I sondaggi d’opinione, non ultimo quello promosso da APER sulle rinnovabili e in particolare sull’eolico, continuano a dirci che la sensibilità ambientale degli italiani è molto alta, e che le rinnovabili e la green tech sono considerate un punto di forza, un’occasione per creare sviluppo e anche un elemento di orgoglio a livello locale e nazionale. L’accettabilità sociale di questi impianti, quindi, dovrebbe essere elevatissima, invece non è così. Che cosa succede allora? Che cosa fa sì che questa disponibilità di principio si trasformi in un’indisponibilità ad accogliere l’impianto sul proprio territorio di riferimento? Evidentemente il problema non è la tecnologia in sé. È un problema squisitamente politico.
C’è una sostanziale diffidenza dei cittadini, che si sentono soggetti passivi dei processi, una generale mancanza di fiducia che si trasforma in sospetto e porta a forme di chiusura e di resistenza. Inevitabilmente tendiamo a chiuderci, a difendere quello che abbiamo perché non crediamo che possa venirne qualcosa di buono né per noi né per i nostri figli né per il Paese. C’è una pericolosa perdita del senso di futuro (e quindi una mancanza di responsabilità verso le generazioni che verranno) e dell’interesse generale.
Il rapporto di quest’anno s’intitola Un puzzle da ricomporre. Ma che cosa deve succedere affinché nei prossimi anni si possa osservare un’inversione di tendenza?
Il cambiamento deve venire dalla politica. I protagonisti della politica spesso cavalcano queste proteste o le fomentano per monetizzarle alla successiva tornata elettorale, tanto che in alcuni casi più che di NIMBY possiamo parlare di NIMTO, Not In My Term Of Office, cioè “non durante il mio mandato elettorale”. Un acronimo che la dice lunga sulle prospettive temporali della nostra politica. Questo navigare a vista, questo tendere a portarsi a casa tutto quello che si può, subito, non può generare sviluppo. Da qui l’impasse politica, sociale, industriale del Paese. Finché continueremo a evitare un confronto serio, approfondito, trasparente, e certamente non semplice, sulle priorità per il Paese, sarà impossibile delineare un progetto. Manca una visione del futuro, manca la capacità di tradurla in scelte concrete, di discutere le opzioni concrete per farle comprendere.
Veniamo al tema della comunicazione. I processi partecipativi in molti casi sembrano essere usati come vera e propria delega di una politica che non sa o non vuole più decidere, con esiti assai discutibili. D’altro canto proprio in virtù di questa delega, si evita di predisporre una comunicazione diffusa, trasparente e che parta per tempo. Non ti sembra anche questo un paradosso?
La convenzione di Aarhus, ratificata dal Governo italiano, sancisce il diritto di essere informati e il diritto di essere ascoltati, vale a dire che i cittadini devono essere messi in condizione di esprimere il loro parere e che le loro opinioni devono essere tenute in considerazione. La partecipazione è importante ed è una risorsa. Si tratta, io credo, di integrare due modelli politici. La democrazia partecipativa serve oggi a rigenerare la politica che ha perso la capacità di interpretare i segnali che vengono dal territorio, da una realtà che si fa sempre più complessa, stratificata e “glocal”, che mescola globale e locale, reti reali e reti virtuali. La partecipazione deve essere sollecitata e in qualche modo condotta, cioè inserita in un processo chiaro che le garantisca un esito concreto. Altrimenti è confusione. La politica deve assumersi però in maniera forte l’onere che le è proprio: tirare le fila, fare una sintesi e responsabilmente scegliere.
Nell’ultimo numero del nostro magazine Relazioni Pubbliche, ci siamo occupati del rapporto tra Nimby e storytelling, individuando una distanza tra la capacità narrativa dei “comitati del no” (rapida, facilmente comprensibile, efficace) e quella delle aziende (lenta, macchinosa, ancora troppo legata ai canali tradizionali e un po’obsoleti). Queste differenze trovano un qualche riscontro nelle vostre analisi?
Da un punto di vista generale, direi di sì. In questo c’è un deficit importante delle imprese che non sono capaci di comunicare il valore del progetto che presentano alla popolazione. Nonostante ci sia un’inversione di tendenza, le resistenze da questo punto di vista sono sempre molto forti. I dati ci dicono che il web si conferma sempre più come lo strumento principale per la comunicazione in questo ambito. In particolare i social media sono diventati il mezzo più facile, veloce e alla portata di tutti per trasferire i messaggi, per raccogliere attorno a un’istanza – negativa o positiva – un gran numero di utenti web, travalicando spesso i confini geografici legati al singolo progetto. Si tratta di un tema molto interessante e per questo nell’ultima edizione del volume Nimby Forum abbiamo inserito su questo tema un approfondimento di Mafe De Baggis, esperta di community on line. Quello che emerge è che di per sé, i social network non sono né orientati politicamente né sono più adatti a raggiungere obiettivi progressisti, rivoluzionari o di protesta piuttosto che di mediazione o conservazione. I social network, tuttavia, funzionano amplificando le relazioni personali e personalizzate: per questo soggetti collettivi come un’azienda faticano a “usarli” a loro vantaggio, a maggior ragione se il loro vantaggio è, o sembra essere, in contrasto con quello delle reti di persone.