Giuseppe de Lucia
La comunicazione, anzi, la buona comunicazione è stata al centro del discorso alla città dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, durante le celebrazioni di Sant’Ambrogio. Un messagio importante che fa riflettere sul ruolo della comunicazione, uno degli strumenti più potenti che l’umanità ha a disposizione.
È ancora forte l’eco delle parole utilizzate dal monsignore Delpini – arcivescovo di Milano - nel corso del suo discorso alla città durante i Vespri per la solennità del santo patrono. Parole forti che toccano diversi argomenti: il tema ambientale, il ripensamento del ruolo delle banche, il reddito da lavoro oramai insufficiente per vivere, la casa... temi importanti che riguardano la vita delle persone e che rappresentano un ofrte invito al cambiamento.
Invito e parole che anche noi dobbiamo raccogliere, soprattutto nel passaggio cruciale legato alla comunicazione.
“La gente non è stanca della buona comunicazione, perché la comunicazione è il servizio necessario per avere un’idea del mondo. Invece la gente è stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e l’esibisce come se fosse la vita, stanca della cronaca che ingigantisce il male e ignora il bene, stanca dei social che veicolano narcisismo, volgarità e odio”.
Un messagio importante che ci fa riflettere sul ruolo della comunicazione, uno degli strumenti più potenti che l’umanità ha a disposizione. È grazie ad essa che costruiamo il nostro senso della realtà, impariamo a conoscere il mondo, instauriamo relazioni e diamo voce alle nostre idee. Eppure, mai come oggi sembra esserci una frattura profonda tra ciò che la comunicazione potrebbe essere e ciò che spesso è diventata.
Non è la comunicazione che stanca le persone, ma il suo abuso, la sua distorsione. Siamo circondati da messaggi che non informano ma confondono, che non arricchiscono ma impoveriscono, che non raccontano la realtà, ma la deformano. La gente è stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e la esibisce come se fosse l’intera vita, che amplifica il male e ignora il bene, che trasforma i social media in contenitori di narcisismo, volgarità e odio.
La comunicazione, nel suo significato più puro, è servizio. È il mezzo attraverso il quale comprendiamo il mondo e ci comprendiamo l’un l’altro. Per secoli, è stata il collante delle comunità, il veicolo attraverso cui le idee si sono diffuse e la conoscenza si è tramandata. Una buona comunicazione non è mai neutra: costruisce, ispira, crea connessioni.
Oggi, però, sembra che questa funzione originaria sia stata messa in secondo piano. Le notizie non vengono selezionate per il loro valore, ma per la loro capacità di attirare clic. I dibattiti non cercano la verità, ma il conflitto. La ricerca del consenso, sui media tradizionali come sui social, ha spostato l’attenzione da ciò che è utile a ciò che è rumoroso.
Uno dei fenomeni più evidenti di questa deriva è il sensazionalismo della cronaca. I media sembrano ossessionati dal raccontare il male, amplificando crimini, scandali e tragedie. Questo non solo distorce la percezione della realtà – facendoci credere che il mondo sia più pericoloso e ingiusto di quanto non sia – ma ignora il bene che esiste e che meriterebbe spazio.
I social media, invece, che avrebbero potuto democratizzare l’accesso alla comunicazione, si sono spesso trasformati in luoghi di esibizionismo e polarizzazione. Qui, narcisismo e odio trovano terreno fertile, alimentati da algoritmi che premiano l’indignazione e la spettacolarizzazione.
Il risultato è un panorama comunicativo che non informa, ma distrae; non unisce, ma divide; non ispira, ma deprime. È una comunicazione che tradisce il suo scopo originario.
Questa cattiva comunicazione ha conseguenze profonde. La prima è la disillusione: il costante martellare di notizie negative e conflitti ci rende cinici, sfiduciati, incapaci di credere che ci sia spazio per il miglioramento. La seconda è la polarizzazione: in un mondo in cui il confronto è sostituito dal litigio, diventa sempre più difficile dialogare e trovare soluzioni condivise. Infine, c’è un impoverimento culturale: siamo sempre meno abituati a cercare il bello, il vero e il buono, sostituiti da contenuti superficiali e scandalistici.
Ma tutto questo non è inevitabile. La buona comunicazione è ancora possibile, a patto che ci sia una presa di coscienza collettiva. Dobbiamo ripartire da alcuni principi fondamentali:
Raccontare anche il bene: I media hanno il dovere di bilanciare le notizie negative con quelle positive, raccontando le storie di chi costruisce, di chi aiuta, di chi migliora il mondo.
Promuovere un’etica dei social media: Gli utenti, così come le piattaforme, devono assumersi la responsabilità di creare spazi di confronto rispettosi e costruttivi.
Educare al senso critico: Scuole, istituzioni e media stessi devono insegnare a distinguere tra informazione e manipolazione, tra dibattito e polemica.
Per noi di FERPI questo è un obiettivo su cui stiamo lavorando da tempo. Vanno in questa direzione le diverse iniziative, tra cui quella più recente – il forum della buona comunicazione – tenutosi durante la scorsa edizione di Ecomondo. Ritrovare una comunicazione autentica e responsabile non è solo possibile, ma necessario. Solo così possiamo sperare di costruire una società più consapevole, più unita e, soprattutto, più umana.