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Comunicazione sostenibile: ci arriveranno prima i pubblicitari o i comunicatori etici?

08/11/2005

Alcune riflessioni del nostro socio Gian Paolo Pinton.

Ormai è sotto gli occhi di tutti: questa società non può più considerarsi votata ai consumi e basta.  Chi cerca di sopravvivere alle nuove realtà, chi riesce a fare come lo struzzo, diventa un pezzo raro. Raro nelle sua miseria mentale, nel suo egocentrismo, nel suo egoismo onanistico. Uno da lasciare dentro ad una stanza, in attesa di cure. Come direbbe Adriano, non è rock!A parte gli scherzi, recentemente, in una tavola rotonda tra professionisti e imprenditori  abbiamo affrontato, in un contesto allargato che vedeva protagonista, senza retorica, la responsabilità sociale dell'imprenditore, come si potevano giustificare talune risorse economiche, puramente investite in campagne miliardarie di comunicazione pubblicitaria tradizionale, senza pensare che almeno con una parte di questi fondi si  sarebbe potuto alleviare la sofferenza ad altri esseri umani.Lasciamo stare a chi destinare una parte di queste risorse economiche: non mancano certo le categorie socialmente più deboli alle quali poter dare una mano. Sono trenta i brand nazionali e internazionali che costellano il pianeta pubblicitario del nostro paese: dal largo consumo alle telecomunicazioni, dall'auto all'intimo. Trenta produttori multinazionali di ricchezza ostentata che continuano a tempestare la gente perchè la propria marca sia toccata, comperata, desiderata tutti i santi giorni.Abbiamo svolto una ricerca, nell'area del largo consumo: è emerso che la pubblicità esclusivamente fine alla marca non funziona più come una volta.  Molti si sono chiesti: è possibile che marche come... non possano spendere meno in pubblicità tradizionale e non pensino di poter  aiutare, almeno con una piccola percentuale del loro budget, bambini che soffrono la fame, malati di aids, o le popolazioni assalite dagli uragani e dai terremoti?  Mi sembra che non ci ricordiamo più abbastanza che siamo abitanti  della parte più fortunata del pianeta; forse dobbiamo incominciare ad approfondire, nella nostra professione, come la comunicazione d'impresa possa investire, almeno  parte delle sue risorse economiche tradizionali, in settori che possano portare vantaggi sociali alle persone più sfortunate del mondo. "Se così fosse e ammesso che possa esserci un progetto trasparente e socialmente condiviso", ci ha detto la maggioranza degli intervistati, "allora comprerei quel prodotto, perché parte dei miei soldi potrà aiutare chi sta peggio di me"! Credo che le grandi marche che sapranno cogliere per prime questa tendenza, riusciranno a cavalcare nuovi consensi, con spostamenti sensibili dei propri volumi di vendita e con un'affermazione straordinaria, in termini di comunicazione sostenibile. Mi chiedo: questo compito lo dovranno assolvere le agenzie di pubblicità o quelli di noi che si occupano di responsabilità sociale delle imprese, di comunicazione etica e di relazioni pubbliche intese nel senso di pensare al valore sociale di ogni azione di comunicazione? La nostra professione è sensibile a questi cambiamenti storico-sociali? E' un bel quesito, sul quale vorrei invitare i colleghi Ferpi a comunicare come la pensano.Gian Paolo Pinton   
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