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I processi comunicativi sull'immigrazione non possono essere appannaggio di parole in libertà

#Inpuntadispillo

03/03/2023

Daniela Bianchi

Un tema di deontologia, di responsabilità istituzionali, di etica. Le parole utilizzate dal Gip nell’ordinanza di convalida dell’arresto degli scafisti, responsabili della tragedia di Cutro, richiamano ancora una volta l'attenzione alle parole e al loro senso, sempre più spesso annullato da un incessante rumore di fondo, ed evidenziano come i processi comunicativi che riguardano l'immigrazione in Italia non possono più essere appannaggio di parole in libertà.

Se non possiamo più chiudere gli occhi è quantomeno doveroso chiudere la bocca.

Con riferimento alla tragedia di Crotone che si è consumata sulle nostre coste qualche giorno fa, è indubbio che sia emerso un diffuso problema di linguaggio, come se non fossero più disponibili categorie deontologiche, responsabilità istituzionali, etica.

Mutuando quanto già scritto qualche anno fa da Biagio Oppi e Sergio Vazzoler, è come se nell’uso del linguaggio, si sia via via smarrito un senso di responsabilità sociale, nei confronti delle comunità, territoriali e virtuali di cui si fa parte; organizzativa, nei confronti delle organizzazioni o istituzioni per le si lavora; professionale, nei confronti dei colleghi e della comunità professionale.

Le parole hanno un senso, ce lo diciamo sempre, ma sembra che lo abbiamo dimenticato, annullandole in un incessante rumore di fondo.

Le ultime in ordine cronologico sono le parole che il Gip ha utilizzato per la stesura dell’ordinanza che ha convalidato l’arresto degli scafisti. Ancora negli occhi la solitudine dei cuori, le file dei feretri nel tentativo invano di restituire dignità a delle vite, le spalle curve del Presidente della Repubblica, quando le agenzie iniziano a battere queste parole stonate.

L'ordinanza d'arresto, che è e resta un provvedimento con il quale il mondo della giustizia comunica all’esterno, in questo caso assume toni sarcastici tali da sfiorare il black humour, quasi provocatori, qui e là termini forbiti, gettati un po’ a casaccio su una tragedia che conta almeno 67 morti. Tra l’altro un bilancio che è destinato a salire.

È evidente che c’è un problema enorme di linguaggio, è evidente che c’è un problema enorme di responsabilità. Può il sensazionalismo a tutti i costi rendere lecito un linguaggio simile?

Il giurista ha una responsabilità enorme nell’utilizzo delle parole, come letto in alcune dichiarazioni questa mattina, il giurista ha il potere di fare cose con le parole per questo occorre averne cura.

E queste parole devono essere chiare e senza ghirigori perché rivestono un duplice compito, rendere comprensibili i provvedimenti giudiziari anche all’opinione pubblica, che è di per sé una delle garanzie costituzionali più importanti, e perché quelle parole raccontano comunque fatti umani, l’oggettività della norma e la soggettività delle emozioni, e devono necessariamente incontrarsi sul terreno del rispetto.

Qualche giorno prima, erano state le parole del Ministro dell’Interno a suscitare clamore. In questo caso a finire sotto la lente una posizione in bilico tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale, dimenticando il ruolo principale e cioè quello di relazione con i cittadini.

Sullo sfondo resta una tragedia umana, ma soprattutto lo scontro politico e di valori sul tema dei migranti.

 

E su questo tema, costantemente presente nell’agenda politica europea da anni, la mediazione dei mezzi di comunicazione diventa terreno fertile per le logiche dettate da necessità politiche e volta a manipolare i sentimenti dell’opinione pubblica europea. Non a caso i termini utilizzati per far riferimento a coloro i quali tentano di raggiungere le coste europee, spesso cambiano di volta in volta a seconda di come si desidera che il fenomeno migratorio venga percepito dalla popolazione e di come venga di conseguenza affrontato dai vertici politici.

Ma rimane un dato incontrovertibile, in queste tragedie il linguaggio non può essere disancorato da un concetto di etica e rispetto, e quello che abbiamo letto e visto in questi giorni, oltre un profondo scoramento, restituisce alla nostra comunità professionale il dovere e la responsabilità di avviare una riflessione e uno studio sull’uso del linguaggio nella rappresentazione del tema immigrazione.

Un saggio di Lilie Chouliaraki, professore di Media and Communication presso la London School of Economics, ci dice che in questo campo il dibattito sociale, politico ed economico risente ancora di produzioni discorsive e visive distorte, più orientate a costruire confini nell'immaginario sociale e a legittimare la distinzione tra "loro" e "noi", che non a fornire indicazioni utili per sviluppare politiche efficaci. Le notizie e le immagini sui migranti diffuse dai media, così come le dichiarazioni e i proclami degli attori politici, non solo non rendono giustizia del profilo demografico, economico e sociale del fenomeno migratorio, ma contribuiscono ad alimentare quei processi di categorizzazione e di etichettamento da cui scaturiscono stereotipi e discriminazioni nei confronti dell’altro.

Quel che resta dopo l’amarezza è una sola consapevolezza, i processi comunicativi che riguardano l'immigrazione in Italia non possono più essere appannaggio di parole in libertà.

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