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Il capitalismo delle emozioni

18/04/2009

La sfera emozionale è diventata una delle principali chiavi di lettura del comportamento. Come tenere in considerazione questo aspetto nel lavoro delle relazioni pubbliche? Una riflessione di Massimo Casagrande.

di Massimo Casagrande


Leggo nel libro di Francesco Gallucci Il marketing dei luoghi e delle emozioni, come sia innegabile e sotto gli occhi di tutti che i luoghi del nostro vivere quotidiano si stiano trasformando per valorizzare le emozioni dei frequentatori. Pensiamo all’opera di ristrutturazione delle grandi stazioni ferroviarie, degli aeroporti, delle aree di servizio, delle piazze, dei cinematografi e della stessa dimensione virtuale (internet web 2.0). Questo avviene perché stiamo vivendo una riscoperta dell’estetica, intesa come capacità di percepire attraverso tutti i nostri sensi.


Questo permette di scoprire che “le cose” hanno un gusto, un sapore, un profumo ed una consistenza materica, oltre che naturalmente una forma ed un colore. E su questo nuovo terreno prendono corpo nuove occasioni di incontro fra le persone e i luoghi, cementate da passioni e da sentimenti condivisi. Il corpo dell’uomo, con la sua storia e con le sue trasformazioni, riacquista diritto di cittadinanza, diventa l’unità da cui partire per misurare il benessere e la qualità della vita delle persone. In questo scenario il cliente non è più individuo isolato ma una persona inserita in una rete di contatti e di relazioni: un cliente “centauro”, capace di muoversi con grande agilità sulla scacchiera del mercato, informato e oculato nelle scelte, attivo e partecipativo. Il cliente diventa un soggetto orientato alla soddisfazione di bisogni di natura profonda, che riguardano la sfera emotiva e le relazioni con gli altri, ma anche la ricerca dei valori, accompagnata da una crescente domanda di qualità ed eticità. La sfera emozionale diventa una delle principali chiavi di lettura del comportamento dell’uomo contemporaneo. Non è un caso se ovunque si organizzino convegni, seminari e saloni di impresa intitolati “il capitalismo delle emozioni” e non è un caso se il Parlamento ed il Consiglio Europeo hanno dichiarato il 2009 “Anno europeo per l’innovazione e la creatività”.


Come è possibile tradurre tutto questo nella realtà dello studio professionale?


Credo possiamo partire da una banalità, dalla cosa più semplice da trasmettere ed ovvia: saper offrire al cliente un altissimo livello di servizio. Sviluppare una profonda attenzione al servizio prestato al cliente. Quando affronto libri sul marketing per le professioni intellettuali o leggo gli articoli dei “guru” stranieri, tutti insegnano che bisogna differenziarsi dai propri concorrenti. Per fare questo spiegano che occorre definire il proprio posizionamento nel mercato e diffondere il proprio nome/marchio. Questo è il punto di partenza per iniziare a persuadere i potenziali clienti che si è migliori dei propri concorrenti che prestano lo stesso servizio. A tal proposito penso si dovrebbe stare con i piedi ben saldi perché non esiste oggigiorno un professionista all’interno del proprio mercato di riferimento che sia veramente migliore o peggiore di un proprio concorrente.


Probabilmente questa affermazione tocca l’ego e la suscettibilità di chi legge, ma la tendenza è questa e nei prossimi anni lo sarà sempre di più. Questo perchè se da un lato la realtà diventa sempre più complessa e richiede livelli di specializzazione professionale sempre più incisivi e definiti, dall’altro, man mano che aumentano le possibilità di condivisione della conoscenza a tutti i livelli (e questo avviene con velocità esponenziale), man mano che aumenta la democraticità della conoscenza e delle informazioni, il professionista migliore appare semplicemente colui che riesce a dare la risposta giusta nei tempi giusti al proprio cliente. Si è perso il senso di essere migliori perché depositari di una conoscenza superiore o di una notevole esperienza (è dato per assodato oramai che anche la grande esperienza in molti casi si rivela inadeguata alla soluzione dei problemi ed alla gestione della complessitànell’odierna realtà così mutevole e liquida). Ciò premesso ammettiamo per avventura che ci siano professionisti migliori di altri. É chiaro che il potenziale cliente, salvo rari casi, non è in grado di cogliere questa differenza. Perché il cliente nella maggior parte dei casi non ha dimestichezza con le problematiche che il professionista di riferimento ogni giorno gestisce dato che , come si dice “non è il suo mestiere”.


Questa difficoltà da parte del cliente di percepire e dare valore alla professionalità del suo professionista si definisce asimmetria informativa. Una volta chiarito questo e tenendolo ben presente, dal punto di vista della comunicazione possiamo dire che quello che il professionista comunica al cliente è sicuramente utile, importante e in qualche caso accattivante ma nella maggior parte dei casi il potenziale cliente si basa sul passaparola, su quello che ha sentito dire da altri (forse al Rotary Club, oppure su indicazione di qualche amico o collega di lavoro, o leggendo articoli in riviste specializzate). E’ un meccanismo virtuoso e positivo e non può non esistere, ma nella sostanza non dimentichiamo che il potenziale cliente non ha un reale metro di giudizio e di paragone a causa del differenziale di conoscenze tra lui ed il professionista (asimmetria informativa, appunto). Qualunque specializzazione, particolare conoscenza, capacità, tecnica di intervento innovativa etc. etc. che un professionista può comunicare ad un potenziale cliente risulta semplicemente un’affermazione, una “banale” promessa.


Ma allora cosa è possibile fare per differenziarsi dal proprio concorrente se le parole non sembrano sufficienti?


Fondamentale è prestare attenzione al servizio, per offrire un servizio di altissimo livello. Il cliente non deve essere solo soddisfatto, deve essere sorpreso. Il servizio prestato deve andare oltre le aspettative del cliente. Distinguersi per fare in modo che il cliente abbia il desiderio di parlare bene del servizio ricevuto. Il cliente deve essere così piacevolmente stupito da provare il desiderio di parlare del servizio che ha ricevuto dallo studio professionale.
Il primo passo è cambiare il modo di vedere sé stessi in relazione al proprio lavoro. Questo passaggio mi sembra sostanziale ed un esempio può esserci utile. L’avvocato non è solo il titolare di uno studio legale. Guardiamo la stessa figura da un altro punto di vista: l’avvocato semplicemente gestisce un’organizzazione che offre un servizio al cliente la cui attività consiste nel produrre documenti con contenuto giuridico. Proviamo a pensare a questa seconda prospettiva che definisce lo studio legale come un’organizzazione che offre un servizio al cliente la cui attività consiste nel produrre documenti con contenuto giuridico. Questa definizione è quella che si avvicina correttamente al punto di vista del cliente. In altre parole significa che il vero lavoro dell’avvocato, visto attraverso gli occhi del cliente, non è produrre atti, non è preparare pareri legali, non è studiare strategie processuali, ma è creare e garantire la sua soddisfazione, di cliente.


La soddisfazione del cliente di uno studio legale passa attraverso la sensazione di protezione, tutela, tranquillità, sicurezza, è questo che il cliente di uno studio legale acquista, l’esperienza della protezione, l’esperienza della tranquillità, l’esperienza della tutela, l’esperienza della sicurezza. Andando un passo oltre lungo questa prospettiva scopriamo che nel “capitalismo delle emozioni” il cliente non acquista né prodotti né servizi, ma spende denaro per avere un’esperienza, un’esperienza anche di contenuto emozionale, acquista un’emozione. Nel testo “The experience economy”, Joseph Pine e James Gilmore spiegano che i clienti non acquistano dei prodotti o dei servizi ma acquistano delle esperienze per cui “il lavoro è uno spettacolo teatrale in cui ogni attività diventa una rappresentazione, una scena”. Credo che il paragone che meglio aiuti a capire questo sia pensare quando entriamo ad Eurodisney a Parigi. All’interno del parco siamo degli ospiti prima che dei clienti ed ogni addetto/dipendente è un membro del cast, un attore, prima che un impiegato, ed ogni giornata di lavoro è uno spettacolo. Ovviamente non cerco di istigare nessuno a trasformare lo studio professionale in un carrozzone di teatranti, mi propongo solo di far capire il motivo per cui spesso le persone sono spinte a scegliere un servizio piuttosto che un altro. C’è sempre una componente irrazionale in ogni scelta, una componente che riguarda la sfera emotiva. Trasformare il servizio in un’esperienza unica, in un’emozione è certamente la chiave di volta perchè permette di sollecitare la sfera irrazionale ed emotiva del nostro cliente. Utilizzando la leva della sfera emotiva ed irrazionale – avendo il vantaggio di essere solo in minima parte influenzata dal livello culturale o di scolarizzazione – è più facile ottenere il consenso di un numero indefinito di clienti dato che nessuno resiste dal farsi rapire da un’esperienza emotivamente coinvolgente. Se facciamo in modo che i clienti vivano un’esperienza attraverso il nostro servizio, non potranno non parlare magnificamente di noi.


Se è vero che è necessario apportare innovazione, un’innovazione è certamente questa evoluzione nella modalità di erogazione del servizio e nella gestione della relazione con il cliente, in un’ottica esperienzale: creare un’esperienza emotiva indimenticabile.


Come fare?


Prima di tutto è importante definire qual è il tipo di esperienza che vogliamo che il cliente viva quando si rivolge a noi, telefonandoci o incontrandoci nel nostro studio o ambulatorio (sia un cliente attuale che un cliente potenziale). È importante a questo punto sapere esattamente identificare, codificare, rappresentare quello che deve accadere, come fosse un copione di uno spettacolo teatrale o di un film. Siamo i registi dell’esperienza che i nostri clienti vivranno venendo a contatto con noi.


Riflettere su questo aspetto è un modo per dare fiato alla passione di pensare, dare fiato a quello che di solito facciamo automaticamente e rivederlo. Per esempio chiediamoci: “Cosa vede il cliente appena entra nel nostro studio?”, “Da chi ed in quale modo viene ricevuto?”, “Come viene accompagnato nella stanza dove si svolge l’incontro?”, “Cosa e in che modo gli viene offerto come genere di conforto?”, “Cosa vede quando attorno a lui nella stanza dell’incontro?”, “Il professionista si reca puntuale all’incontro con il cliente?”, “Come vengono posti i saluti al cliente?”. Questi sono esempi che riguardano gli aspetti più banali ed esteriori della relazione con il cliente. Relazione finalizzata a trasmettere un’esperienza ed un’emozione e non solamente ad erogare un mero servizio. Ci sono altri aspetti e punti di forza, più legati alla sfera strettamente relazionale e meno a quella dell’immagine, che si possono affinare e che dipendono in stretta misura dalla cultura e dallo stile di ciascuno. In ogni caso è opportuno iniziare dagli elementi più semplici e provare a formalizzarli in una sorta di protocollo o copione da condividere con tutti i membri dello studio perché è il primo passo che serve per porre attenzione ed iniziare e meditare su questo tema. Nei prossimi anni sarà uno degli aspetti determinanti per il successo professionale. Il copione o protocollo è il primo passo per diffondere una sensibilità nuova all’interno di tutto lo studio: le cose si possono fare in modo diverso, in maniera nuova, apportando a gesti e processi banali e quotidiani un’innovazione che può offrire un notevole valore aggiunto alla relazione con il cliente. Pensiamo a come si risponde al telefono, a come vengono accolti i clienti, a come ogni membro dello studio deve presentare lo studio stesso all’esterno. Quando ciascuno avrà interiorizzato il nuovo modo di procedere a tal punto che diventerà naturale e non più un protocollo da seguire, allora si avrà veramente un’attenzione al cliente ed un modo di erogare il servizio che sarà unico, irripetibile, incomparabile. Perchè tutta l’organizzazione si adopererà per offrire al cliente significati, esperienze, identità, non solo un servizio da acquistare, ma un’esperienza unica da vivere.


Agli scettici ricordo che il fatto di non aver previsto un copione su come gestire l’esperienza relazionale che il cliente deve vivere non significa che il cliente non ne viva alcuna. Significa semplicemente perdere l’opportunità di trasmettere esattamente quelle esperienze che noi vogliamo che il cliente viva. Allo stesso modo in cui anche chi non ha una strategia di comunicazione definita, comunque comunica – voglia o non voglia – con il grande rischio di comunicare in maniera incontrollata ed indisciplinata. Quando scriviamo il copione per costruire ed offrire l’esperienza emotivamente coinvolgente di cui il cliente godrà, in quel momento iniziamo davvero a differenziarci dai concorrenti perchè esprimiamo la nostra individualità. Questa è certamente la strada più agevole e più raffinata per differenziarsi dai concorrenti: l’identità. Inoltre è un modo coinvolgente ed innovativo per tutti i collaboratori. Non è più sufficiente che il cliente riceva una buona prestazione, ma deve vivere un’esperienza, essere sorpreso, piacevolmente stupito e deliziato. La primavera è fonte di rinnovamento, di primizie e di delizie della natura, è quindi il giusto momento per iniziare a pensare a come deliziare il cliente in maniera innovativa.


Massimo Casagrande, PR Consulting – Padova
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