Ferpi > News > Il cittadino che non c'è. L'immigrazione nei media italiani

Il cittadino che non c'è. L'immigrazione nei media italiani

08/11/2004

Segnaliamo la recensione del libro di Ribka Sibhatu tratta dal sito Migranews.net.

Il cittadino che non c'è. L'immigrazione nei media italiani  di Daniele Barbieri (da www.migranews.net del 08/11/04)Esistono molte indagini su come i mass media italiani affrontano la questione dei migranti ma sono perlopiù ricerche universitarie o specialistiche: testi che non vengono pubblicati oppure finiscono nei cataloghi di piccoli (pur se intelligenti) editori e dunque risultano quasi inaccessibili al lettore "normale". Il cittadino che non c'è di Ribka Sibhatu meriterebbe – per completezza, per serietà, per capacità analitica e riassuntiva - di arrivare a un pubblico vasto quanto eterogeneo. Il libro è uscito a maggio però finora pochi se ne sono accorti; a confermare la disattenzione dei più e l'indifferenza dei recensori e/o degli opinion leaders "professionali". Ma il valore di questo testo è tale che, seppure con un faticoso passa-parola, lo farà obbligatoriamente entrare nel bagaglio informativo di chiunque vorrà accostarsi al tema.Chi in questi anni ha studiato (o almeno scrutato) con occhio minimamente critico i media italiani sa cosa può trovare in un libro del genere: di immigrati si parla con superficialità, allarmismo e omologazione – come del resto su molte altre questioni – talvolta con dosi di strumentalizzazione, ignoranza e pregiudizi che superano ogni decenza per un Paese che si dice democratico e civile. Ci sono «segnali incoraggianti», come scrive l'autrice; ma flebili, incerti, contraddittori. Nella breve prefazione, Maria Immacolata Macioti aggiunge che «questo testo ci aiuta a conoscere meglio il dominio coloniale italiano»; un'osservazione sicuramente vera ma ottimista. Se non comprendiamo bene «la nostra stessa storia» e se interpretiamo male il presente è proprio perché viviamo in un sistema formativo (la scuola) e informativo che non ha saputo definitivamente rompere con quel passato non democratico e dunque anche con il suo inconscio razzismo. Se preferite, si può mettere così: se non trovi qualcuno che ti parla del daltonismo beh è difficile che tu scopra da solo di esserne affetto.La durezza del pregiudizio è sotto i nostri occhi quotidianamente … se vogliamo vederla. Racconta Ribka Sibhatu: «quando cominciai a lavorare all'ufficio informazione di una circoscrizione di Roma, la gente che chiedeva informazioni ogni volta che entrando nell'ufficio trovava solo me invariabilmente chiedeva: "Non c'è nessuno?"…». Un'immigrata è appunto nessuno: questa terribile, violenta forma di "daltonismo" deve avere radici ben profonde e condivise se in pochi si pongono il problema. Paura certo - «meglio il diavolo che conosci che un angelo sconosciuto» afferma il detto eritreo, citato dall'autrice – ma anche quel misto di ignoranza, presunzione di superiorità, conformismo che caratterizza le nostre maggioranze assonnate.La ricerca di Ribka Sibhatu va dal marzo '99 al giugno 2001per «analizzare lo storico evento dell'immigrazione in Italia e l'immagine che i mezzi di comunicazione di massa propongono al pubblico» prendendo in esame due quotidiani (Il corriere della sera e Repubblica), il Tg-1 delle ore 20, Radio Vaticana delle 21 e il Tg-5 delle 24,30. Ma è significativo ricordare che il piccolo finanziamento a sostegno dell'indagine della Sibhatu era inizialmente diretto verso un altro obiettivo: vedere come i nostri media affrontavano l'immigrazione verso l'Italia dal Corno d'Africa, «notoriamente formato da tre ex colonie italiane». Ma nonostante «in quella parte del mondo vi fosse una guerra […] e avesse provocato più di 100 mila morti» le notizie sono così scarse che Ribkha Sibhatu muta il suo progetto. Una sua frase è particolarmente inquietante: «Varrà la pena di notare che l'Italia è tra le maggiori fornitrici di armi all'Eritrea». Forse è anche qui la ragione del disinteresse mediatico: magnificate quando sono in mostra o alla voce export, le armi made in Italy diventano un argomento tabù quando uccidono.Nel nuovo obiettivo della ricerca, cioè «il complesso fenomeno migratorio» l'autrice nota subito che, nel pur diverso approccio dei cinque citati mezzi di informazione, si possono individuare alcune pecche ricorrenti: «l'immigrato è il grande assente» ovvero si parla di lui ma senza la sua voce; «manca la conoscenza della loro quotidianità» ovvero i migranti sono sempre estranei e sconosciuti pure se in Italia da 15 anni; pochissimo spazio c'è per «la ricchezza del mondo dei migranti». Costanti negative che, a volte, si prova a superare: ma, se pure l'autrice non stila pagelle, dalla minuziosa analisi si ricava che solo Radio Vaticana si impegna seriamente con un minimo di continuità.Perfino il termine «straniero» o «immigrato» continua a essere usato a sproposito. Come definire tale un ragazzo di 24 anni «arrivato in Italia quando aveva un anno» e sempre vissuto qui?Impossibile ripercorrere le analisi dettagliate di 344 pagine. Dal segretario Ds, Walter Veltroni che, ben prima di Gianfranco Fini, parla del voto agli immigrati residenti a un importante forum dell'Unesco nel giugno 2000; dal pirata della strada Panajot Bita agli editoriali di Giovanni Sartori; dalla scuola Daniele Manin di Roma ai figli contesi da genitori di due nazionalità; dai sequestri alla prostituzione o al suicidio di "Samir" nel carcere di Pisa… il quadro che ne esce è sconfortante. Di alcuni eventi avevamo perso memoria; di molti ci erano sfuggiti il contesto, la sovra-esposizione e/o la strumentalizzazione. I commenti dell'autrice sono talvolta illuminanti ma più spesso l'insieme dei fatti è così evidente che non serve un "di più" interpretativo. Certo per capire come sia grave accendere i riflettori su un solo pirata della strada albanese bisognerebbe aver presente che in quell'anno 2000 i "pirati" accertati furono 7835 e sapere che quasi tutti (anche quelli con conseguenze mortali) non suscitarono il minimo interesse fra i giornalisti.Se il lavoro di Ribka Sibhatu finirà, come c'è da augurarsi, fra le mani di persone "non addette i lavori" (o comunque non attente all'analisi dei mass media) l'effetto indotto sarà probabilmente simile a quello che sconvolge chi solleva un sasso e sotto trova un verminaio. O, se si vuole essere meno perfidi, paragonabile alle sensazioni suscitate nelle persone che per la prima volta guardano attraverso un microscopio o un telescopio: era tutto lì, sotto i nostri occhi, eppure invisibile. Magari avevamo anche intravisto o intuito qualcosa ma era difficile giurare su quello che ora è così chiaramente esposto.Il recensore pignolo deve ovviamente segnalare anche omissioni, errori, imprecisioni o altri difetti. In questo caso all'autrice si può rimproverare una sola, veniale colpa: quella di avere adoperato anche lei (a pagina 65) quell'aggettivo «multirazziale» che invece è una insensatezza in via di scomparire. Succede, come del resto scrive la Sibhatu ad altri propositi: «Sto cercando ancora le parole giuste». Maggiori le responsabilità della tipografia e/o di chi doveva riguardare il testo prima di dare l'ok: davvero troppi i  refusi. Passi che il grande fotografo Salgado non riesca mai ad avere il suo nome – Sebastiao – scritto a modo, ma un refuso stravolge nell'indice persino il ricordo di Ion (o Yohan) Cazacu – che fu bruciato vivo nel marzo 2000 da «un imprenditore» di Gallarate -  ribattezzandolo «Johan Kasaki».Ultima notazione, forse poco professionale: chi scrive spera, prima o poi, di incontrare Ribka Sibhatu. Certo per farle i complimenti ma anche per chiederle di soddisfare una privata curiosità: quel gioco - «ghebetà» - che lei cita è forse lo stesso che, in altre parti dell'Africa, chiamano warri? E capire come uno dei giochi più antichi, semplici, diffusi, affascinanti sia sopravvissuto in Africa e Asia per sparire in Europa non sarebbe una bella ricerca per qualche scolaresca "multi-culturale"?«Ghebetà» (o warri) a parte, chi leggerà Il cittadino che non c'è troverà, accanto alle idee dell'autrice, un po' dei suoi ricordi (resta in mente la nonna che usava la parola «chianti» per indicare ogni bontà), frammenti della sua storia e di quella del suo Paese martoriato. Proprio grazie all'empatia di Ribka Sibhatu è probabile che venga la voglia – come lei scrive - «di contribuire a rendere migliore un mondo in cammino». Vi par poco?Ribka SibhatuIl cittadino che non c'è: l'immigrazione nei media italianiEdup (06 692043313, info@edup.it, www.edup.it)  pp.344, 13 euro
Eventi