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Il lato soft dello smart working

17/09/2020

Letizia Nassuato

Lo smart working è stato al centro delle dinamiche lavorative durante il lockdown. Celebrato o esecrato è certamente una modalità nuova e molto discussa. Ma il lavoro da casa può aiutare a rafforzare le relazioni? La riflessione di Letizia Nassuato.

Tanto si è detto sullo smart working negli ultimi mesi e, mentre la procedura semplificata prevista per il periodo emergenziale è stata prorogata fino al 15 ottobre, molte realtà produttive con il mese di settembre si stanno organizzando con rientri progressivi.

Al di là delle specifiche tecniche e sebbene da poco meno di un decennio abbia fatto il suo ingresso in Italia, lo smart working o lavoro ‘agile’ è stato normato nell’ambito della disciplina giuridica del lavoro solo nel 2017, non come nuova tipologia contrattuale ma come modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che pone l’accento sulla flessibilità organizzativa.

La sua estensione massiva in piena emergenza sanitaria ha ben rappresentato l’eccezionalità del momento e, proprio per questo, ne ha fatto emergere oltre alle luci che lo caratterizzano in condizioni standard, anche aspetti finora inesplorati che ne rivelano l’ulteriore valore. Di sicuro non mancano alcune ombre: dalla sovrapposizione degli spazi di lavoro e famigliari, ai problemi tecnici con l’utilizzo di strumenti nuovi per molti, all’eccessivo carico di lavoro ricaduto sulle donne…

Certo molti elementi su cui necessario lavorare.

Guardando agli aspetti più relazionali ha comunque contribuito ad una maggior umanizzazione della comunicazione, e questo non solo per lo stato emotivo in cui ognuno di noi si è trovato ad applicarlo soprattutto nelle fasi iniziali, ma perché gestire relazioni di lavoro dalle proprie mura domestiche, ha richiesto l’utilizzo anche di quelle soft skills a volte trascurate nella routine quotidiana dei tradizionali ambienti di lavoro.  

Anzitutto nei primi mesi di distanziamento sociale, si è sentita una maggior necessità di essere in contatto con gli altri. Così, pur nella velocità di gestire impegni di lavoro diminuiti nella loro dimensione strettamente legata alla mobilità fisica ma la cui complessità di gestione è spesso aumentata, si è preferito un’informale messaggio in chat piuttosto che una e-mail, una video ad una semplice chiamata, ed anche l’incipit del “come stai?” ha superato lo spazio di formalità acquisendo un significato più sincero.

Ed ecco che attivare la telecamera del pc o dello smartphone, è stato un po’ come aprire al pubblico il proprio spazio privato; e se addirittura le celebrities durante il periodo di lockdown hanno rinunciato alle immagini patinate cui Instagram ci aveva abituato, allo stesso modo ognuno di noi si è trovato a sacrificare alla spontaneità una piccola parte dell’immagine di sé che ci si era costruiti all’interno dell’ufficio.

Così oltre a disegnare nuovi modelli di lavoro, si configurano nuove forme di comunicazione, in cui è stata la tecnologia ad avvicinare e ad offrire l’opportunità di creare relazioni professionali cha hanno come punto di partenza competenze e abilità, ma che richiedono anche capacità comportamentali in grado di ampliare il nostro ecosistema lavorativo.

E mentre i più ortodossi dello smart working hanno rivendicato l’aspetto creativo della solitudine, come il giornalista Janan Ganesh che dalle colonne del Financial Times ha ricordato che Newton sviluppò i suoi calcoli mentre era solo (l’Università di Cambridge era chiusa per la peste); chissà che non se ne capitalizzi invece l’aspetto più umano, quello basato sulla relazione di cui abbiamo vissuto l’assenza perché privati di altri spazi di condivisione. 

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