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Infrastrutture: solo la partecipazione motore di sviluppo del Paese

14/02/2014

Oggi se si fa qualcosa, lo si fa coinvolgendo i cittadini. Non c'è alternativa. Ma lungi dall’essere un rischio che può condurre alla paralisi decisionale, sostiene _Paolo Bruschi,_ il processo partecipativo è un'opportunità per sbloccare il Paese ed attivare un nuovo patto sociale che lo renda nuovamente competitivo.

di Paolo Bruschi
È innegabile che il nostro Paese stia vivendo un momento di svolta: un’era nella quale convive chi non riconoscerà mai la necessità di coinvolgere i cittadini nella progettazione delle opere e chi entra nel mondo del lavoro trovando inconcepibile fare altrimenti. E questo è in parte uno dei problemi che vive chi, come noi, si trova a realizzare progetti di partecipazione nello scenario attuale. Pensiamo a un ingegnere che per trent’anni ha lavorato al chiuso del suo ufficio, realizzando progetti basati su un principio di efficacia scientifica, applicando rigorosamente un Linguaggio tecnico per farsi comprendere senza possibilità di fraintendimenti dai suoi colleghi. E immaginiamo ora di catapultare questo ingegnere in un’assemblea pubblica a spiegare il suo progetto a una folla arrabbiata, esigente e con una preparazione così diversa dalla sua. L’abbiamo visto coi nostri occhi innumerevoli volte ed è uno spettacolo umano che potrebbe far sorridere, se questa totale incomunicabilità non avesse come conseguenza il fallimento del dialogo e dunque della possibilità di realizzare un progetto. Perché una cosa deve essere chiara: oggi se si fa qualcosa, lo si fa coinvolgendo i cittadini. Non c’è alternativa. Non solo è finita l’era in cui nel progettare un’opera non si teneva conto delle popolazioni interessate. È finita anche l’era in cui si poteva decidere se coinvolgerli o meno. Apro una digressione per precisare che non possiamo garantire che si tratti di un fenomeno irreversibile: persino Slavoj Zizek, il filosofo-attivista sloveno idolo dei movimenti radicali, è solito dire che non potrebbe sopportare di vivere in una società costantemente partecipativa, perché la nostra vita è già sufficientemente complicata e impegnata senza dover anche essere coinvolti su qualsiasi argomento, in uno stato di costante allerta e attivismo. Quanti di noi effettivamente preferirebbero limitarsi a eleggere rappresentanti e governanti, avendo la fiducia che chi sta prendendo le decisioni al posto nostro stia facendo le scelte giuste, piuttosto che impegnare ogni proprio momento libero a mobilitarsi in prima persona per proteggere il proprio territorio, il proprio lavoro o la propria famiglia? In passato è stato così e nessuno può avere la certezza che non tornerà a esserlo in un lontano futuro, ma di sicuro non è così al momento e non lo sarà per i nostri figli. Cerchiamo allora di capire perché e cosa possiamo fare perché questa situazione non porti alla paralisi, ma sia anzi un’opportunità per sbloccare il Paese, per attivare un nuovo patto sociale che lo renda nuovamente competitivo e d’esempio. Sfatiamo innanzitutto il mito che gli italiani siano contrari all’innovazione. Una generalizzazione senza fondamento, che da un lato ha la grave colpa di renderci miopi rispetto al vero problema strutturale che dobbiamo affrontare, dall’altra è un facile modo per scaricarsi la coscienza da parte di chi dovrebbe invece ritenersi responsabile: «non abbiamo sbagliato, sono gli italiani a essere lucidisti». Ciò che manca non è un desiderio di innovazione. Ciò che da decenni abbiamo perso è un pensiero condiviso su quale debba essere il fine di questa innovazione. Gli italiani hanno generalmente condiviso i progressi di un ‘900 che ha portato il trasporto di massa, una trasformazione agricola che ha posto fine a secoli di carestie alimentari, le Alpi trasformate in un enorme bacino idroelettrico, strutture sanitarie in grado di prendersi cura di interi strati della popolazione. Vedendo i risultati finali di tutto questo attivismo, obiezioni enormi che avrebbero potuto (e talvolta dovuto) essere prese in considerazione, non furono neppure sollevate. Il paesaggio, stili di vita secolari furono stravolti. Ma lo avevamo fatto insieme: non prendendo le decisioni, ma condividendone il principio di progresso e soprattutto i frutti. Attenzione, non che la fiducia nei politici, come persone, fosse elevata neppure allora. C’è sempre stata una folla che gridava “ladri” dentro ai bar. Ma quali fossero i modi, quali fossero le risorse che andavano sprecate lungo il percorso poco importava: c’era la percezione che la meta sarebbe stata raggiunta. Ed era una meta che chiunque poteva comprendere: era la libertà di muoversi, la fine della fame, la luce che per la prima volta illuminava le notti anche dei poveri. Allo stesso modo, gli italiani stanno rivoluzionando le proprie vite con la tecnologia. Gli smartphone, la connettività e persino l’attivismo civico e politico viaggiano in rete molto più che in altri Paesi, nonostante un digital divide inasprito da infrastrutture tecnologiche non all’altezza né dei nostri sogni né delle nostre esigenze. Non è forse un caso che i filoni più in crescita della nostra attività siano diventati in questi anni proprio la gestione del rapporto con i territori e i Social media, in fondo due facce della stessa medaglia: sempre comunità da ascoltare, mappare, comprendere e far interagire in maniera il più costruttiva possibile. Il mondo con il quale quotidianamente interagisco attraverso il mio account twitter @Bruschi_Segest testimonia, in effetti, una vitalità che contraddice qualunque pessimista. Gente che affronta grandi difficoltà con dignità, forza e idee per ripartire meglio di prima. In cambio però, e qui sta la differenza, chiede di essere ascoltata. Di trovare non più soltanto una rappresentanza (miraggio al quale neppure più si aspira) ma persone, istituzioni e programmi coi quali interagire direttamente, in maniera personale e personalizzata. C’è chi ha in parte accolto questa esigenza. A partire dall’esempio della Regione Toscana, che per prima ha inserito nel proprio statuto l’obbligo di istituire percorsi di partecipazione per i grandi progetti o dell’Emilia-Romagna che ogni anno istituisce un bando dedicato a progetti di partecipazione e ha attivato percorsi di democrazia partecipativa in molti luoghi colpiti dal sisma del 2012, per progettare la ricostruzione insieme ai cittadini (un progetto al quale teniamo molto). Ora anche la Puglia si sta attivando in questa direzione e molte altre istituzioni certamente seguiranno, in attesa di una normativa nazionale lungamente promessa. Se non sarà prima l’Europa a scavalcarci, imponendo un balzo in avanti a chi non si sia attivato per tempo. Ma non si può affrontare questo argomento senza ricordare anche le aziende private che hanno compreso come questo sia l’unico percorso possibile oggi. Non soltanto l’esempio di Autostrade nel progetto della Gronda di Genova, ma anche altre aziende meno note, molte nel settore energetico, che stanno imparando il valore dell’ascolto e l’importanza del riconoscere un ruolo attivo a tutti gli stakeholder, dunque non solo gli azionisti, ma prima di tutto i cittadini. A volte si tratta di raccogliere opinioni, di consentire ai cittadini di dire la propria, altre volte è una vera e propria co-progettazione. In ogni caso è una sfida, ma anche una grande opportunità di crescita professionale per chiunque sia coinvolto, in ogni ruolo. Sicuramente nasceranno nuove figure professionali legate a queste attività, ma ancora di più usciranno trasformate le tante professionalità che già esistono e che si troveranno sempre di più a dover agire in maniera trasparente, aperta e costantemente connessa. Una vera rivoluzione, anche umana. Certo siamo in grande ritardo. E andiamo incontro a momenti difficili. Ma proprio per chi è in ritardo, ci sono opportunità del tutto particolari. Perché costruire da zero è più facile che sistemare, manutenere, rattoppare e migliorare al tempo stesso. Lo vede chiunque si trovi ad atterrare per la prima volta in Asia: aeroporti nuovi di zecca, stazioni dei treni iper-tecnologiche e linee superveloci che non sarebbe stato possibile realizzare modificando infrastrutture preesistenti, dovendo garantire servizi precedenti e rendite di posizione. E non parliamo qui soltanto dell’Italia, ma anche del Regno Unito o degli Stati Uniti. In questo senso, il rischio più grande che corriamo è quello di insistere a cercare di prendere treni in corsa (come tecnologie, infrastrutture, stili di vita) quando ciò sui cui dovremmo concentrarci è il futuro. Anche per questo ascoltare la voce di tutti potrà essere utile. Perché senza discussioni regolamentate si sente soltanto la voce di grida più forte, ma nelle giuste condizioni può trovare spazio anche chi è più ragionevole o chi è più visionario. E allora riusciremo a progettare non solo per l’oggi, ma per il domani. Per essere, domani, di nuovo all’avanguardia.
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