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La diversità come strategia

15/09/2004

La più importante rivista di management del mondo, la Harvard Business Review, attribuisce la rinascita di IBM alle sue politiche di diversità.

Per chi nutrisse perplessità in merito all'importanza del tema scelto per il secondo festival mondiale delle relazioni pubbliche, consiglio (oltre a seguire quotidiani, radio, web e tv che minuto per minuto ci presentano orrori e assassini, soprusi e aggressioni in nome di diversità che vorrebbero essere totalizzanti anziché forti soggetti di dialogo) di leggersi anche il numero appena uscito di Harvard Business Review (settembre) dove è un saggio di David Thomas intitolato Diversity as Strategy. In questo autorevolissimo saggio si racconta come la grande ripresa della IBM, impresa che nei primi anni novanta sembrava avviata al tramonto, è in larga parte dovuta alla caparbietà con cui il leggendario Ceo Lou Gerstner, oggi in pensione, ha avviato il suo programma delle cinque diversità.La IBM di oggi è molto diversa da quella del 1995: i dirigenti donna sono cresciuti del 233%, il consiglio generale mondiale (52 top manager) comprende donne, minoranze etniche non americane, e cittadini di altri paesi. Gay, lesbiche, bisessuali e transsessuali dichiarati sono cresciuti del 733%e il numero dei disabili dirigenti è triplicato. ‘Per noi' ricorda Gerstner ‘la diversità è stata un politica di marketing….oggi comprendiamo meglio i nostri mercati, che sono diversi e multiculturali'. Ecco il sommario dell'articolo.Un altro caso rilevantissimo e molto avanzato è quello di cui abbiamo già accennato in questo sito: il più grande gruppo finanziario del mondo, Citigroup, da anni persegue una imponente politica delle diversità e pubblica un interessantissimo rapporto annuale dedicato. E pensare che non molti giorni fa il direttore della comunicazione di un grande gruppo italiano, quando gli ho chiesto se avevano definito una politica della diversità, mi ha risposto: ‘ma, sai noi non abbiamo tanti operai di colore….'. Non gli è mai venuto in mente per esempio che i prodotti e i servizi che vende sono anche acquistati da ciechi, disabili, lesbiche, gay, gialli, neri, sordi, uomini, donne, giovani, anziani, berlusconiani, no global, malati mentali, depressi e chi più ne ha e più ne metta. Non gli è mai venuto in mente che quando lui (lei) e i suoi collaboratori pensano di avviare una relazione con un pubblico hanno sempre in mente un interlocutore bianco, di mezza età, accoppiato con uno o due figli, del centro nord e via stereotipando senza poi accorgersi che una delle ragioni per cui la sua comunicazione non funziona è perché comunica a anziché comunicare con.Ecco il senso del Festival. La professione delle relazioni pubbliche (fra tutte quelle legate alla comunicazione) è quella che più di altre permette flessibilità, duttilità e adattabilità per governare il dialogo, il negoziato e la relazione con gli altri.Siamo pronti a un ‘nuovo inizio'? Siamo pronti ad imparare ad applicare le nuove tecnologie allo stakeholder relationship management senza cadere nel tecnologico e restando in un forte alveo umanista? Siamo pronti a ricordarci, come anticipava dieci e più anni fa l'ottimo Federico Spantigati, che il dialogo fra identità deboli non funziona e che la comunicazione deve servire anche, se non soprattutto, a rafforzare le identità (più ancora che l'immagine o la reputazione)? Siamo pronti a capire che è il relatore pubblico il professionista più attrezzato oggi a aiutare le organizzazioni ad assumere processi decisionali e attuativi inclusivi senza rischiare la deriva dell'inciucio e del consociativismo deteriore?(tmf)
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