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La rete è il settimo continente

08/07/2010

Un’analisi disincantata, dettagliata e precisa quella del presidente UPA _Lorenzo Sassoli de Bianchi_ all’assemblea dell’associazione. Una valutazione attenta dei nuovi media e dell’avvento del digitale che ha innescato un processo irreversibile che cambia tutte le logiche di investimento pubblicitario fino ad oggi utilizzate.

di Lorenzo Sassoli de Bianchi
La comunicazione è alle prese con il proprio labirinto. Una tela di Penelope che fila a velocità esponenziale. Molti cambiamenti si stanno avvicendando sotto i nostri occhi: stiamo passando dal web dell’informazione al web delle persone. Fino a dieci anni fa, e pare un secolo, usavamo internet per informarci, oggi le informazioni circolano come frutto dei rapporti tra le persone dentro e fuori la rete. Un passaggio significativo che può essere raccolto in numerosi esempi: Dagospia è web dell’informazione quando riporta notizie ricavate da altre testate, ma diventa efficace soprattutto quando si alimenta di segnalazioni di persone che c’erano, hanno visto e sentito.
In buona sostanza oggi la rete è il settimo continente, Facebook potremmo definirlo come “quarto stato”, la fibra ottica è la “nuova frontiera”, l’ultimo miglio prima di completare la rivoluzione digitale. Facciamo attenzione: non siamo alla rivoluzione finale, piuttosto viviamo in uno scenario senza precedenti, in cui il futuro coesiste col passato.
Un passato che accetta le sfide e, dimostrando coraggio e fiducia, cerca di attualizzarsi, di ibridarsi con presente e futuro.
L’editoria si accorge che c’è più fila davanti ad un Apple Store che davanti un’edicola e reagisce puntando su qualità del prodotto e sul rapporto di fiducia con i lettori. La tv generalista si muove sempre più su un orizzonte multimediale trasformando programmi in eventi, la radio coglie l’opportunità dei podcast, il cinema diventa boutique delle emozioni prima e dopo la proiezione, per non parlare dei videowall nelle strade e nelle stazioni o dei bouquet satellitari replicabili in streaming.
Stretti, di conseguenza, tra fulminee improvvisazioni della tecnologia e nuovi paradigmi imprenditoriali siamo tutti impegnati a ripensare i nostri modelli di lavoro. Non esistono facili ricette, chi pensa di averle vuol dire che non è consapevole della complessità della situazione. Oggi, infatti, non siamo alle prese col futurismo, ma piuttosto con l’astrattismo: l’Euro che rischia di diventare “plus”, la ricchezza che finisce nel buco nero della finanza, imprese e stati interi in amministrazione controllata, debiti che si chiedono quando arriverà la generazione che li pagherà, social network come esseri mutanti che nascono e muoiono nel giro di una stagione, telecomandi come acceleratori di particelle sulla rampa di lancio di centinaia di canali, la scrittura che scorre dalla carta ai tablet.
Entrando nel labirinto troviamo, per fortuna, alcuni punti fermi. L’evoluzione tecnologica ha abbassato le barriere d’ingresso al mercato dei media. Oggi un blogger intelligente in poco tempo, con pochi soldi e molte buone idee, macina contatti e ottiene risultati che in altre epoche erano impensabili senza enormi sforzi economici. Vi ricordate l’anno scorso a Roma al Summit UPA Arianna Huffington? Potrebbe essere il capo del filo. Nel nome un destino: Arianna ha trovato il suo percorso in questo labirinto. Seduta comodamente nella sua casa dell’Upper East Side orienta l’opinione di mezza America generando migliaia di contatti e gli inserzionisti pubblicitari si dicono molto soddisfatti.
I grandi media tradizionali sono quindi obbligati a ripensarsi e riposizionarsi nel nuovo scenario per evitare perdite di quota. Anche se, oggi e ancora per molto tempo, la maggior parte del business sarà garantito da loro. La prova di ciò è nei numeri: sappiamo, ad esempio, che i così detti “nativi digitali” cioè i ragazzi tra i 18 e i 24 anni passano oltre il 60% del tempo di esposizione ai media guardando la TV generalista. Un altro punto fermo nel labirinto è la moltiplicazione delle porte di accesso al sistema della comunicazione.
Accessi tutti in competizione tra loro. Ognuno di questi terminali si trova nella necessità di acquisire risorse, ma soprattutto di conquistare una risorsa fondamentale: il tempo delle persone. È altresì interessante notare come il digital divide penalizzi una fascia ancora molto attiva di persone dai 55 ai 64 anni che trascorrono ancora poco tempo al giorno sulla rete. O diamo a tutti un tablet o portiamo loro, una buona volta, la connessione veloce in casa. I numeri sono critici: abbiamo solo ventuno connessioni alla banda larga ogni cento italiani.
Siamo 10 punti dietro l’Europa. Questo è un tema serio che avrebbe bisogno di risposte e risorse immediate: tutti i ritardi accumulati in tal senso sono una vera ipoteca sul futuro. Attenzione: il ritardo digitale rischia di essere un fardello anche per tutti gli altri mezzi. Pensiamo agli e-book, ai quotidiani e periodici online, alla tv in streaming, al noleggio dei film, alla radio digitale. Tutte innovazioni che rischiano di infilarsi in un imbuto.
Qual è dunque un possibile nuovo modello di business di fronte alla crescente frammentazione del pubblico sui diversi mezzi? In altri termini, come relazionarsi con una persona che guarda la tv con un pc sulle ginocchia, lo smarthphone che vibra di fianco, il tablet sul tavolino e quando arriva una mail non sa più dove andare a leggerla?
Questo delirio digitale rappresenta per noi investitori un problema enorme e si tratta di un processo irreversibile che cambia la logica di accountability: la pianificazione che nasceva su metriche analogiche oggi deve essere riconsiderata ricercando maggiore efficienza, districandosi tra una cinquina di decoder, riferendosi a criteri di ricerca che dobbiamo sforzarci di affinare.
In una fase di tumultuosa innovazione l’esperienza ci è sempre meno utile, dobbiamo imparare sperimentando: giusto peso ai numeri, ma un’abitudine di pensiero che metta al centro un consumatore sempre più cinico nelle scelte, sbrigativo, meno fedele e più concreto. Insomma quello che Giampaolo Fabris ha definito “consum-attore”, spiegandoci brillantemente per anni la sua evoluzione.
In questa complessa coesistenza di passato e futuro c’è la difficoltà di mettere a fuoco il presente. Quello che sappiamo è che presto leggeremo i giornali al buio e che, quando telefoneremo ad una persona lontana, la vedremo apparire davanti a noi in un raggio di luce olografica dove l’unica cosa che non potremo fare sarà di abbracciarla davvero.
Sta a noi capire che il menabò di un giornale o il palinsesto di una rete non sono più dispositivi per fidelizzare un pubblico definito per età, classe sociale, economica, culturale, ma sempre più strumenti per entrare in contatto con comunità, tribù che si definiscono per un immaginario comune. Di conseguenza occorre caratterizzare sempre più i contenuti. Se oggi un prodotto editoriale non aggrega, di fatto, non esiste, non appare. È proprio la caratterizzazione l’elemento che ibrida passato e futuro. Ad ogni immaginario deve corrispondere una suggestione da diffondere su tanti mezzi diversi. Insegne comprese. Vale la pena ricordarlo: è bastato un pollo a Bogusky per riposizionare Burger King.
Come fare a tenere insieme tutto ciò? Un buon punto di partenza è la narrazione. Microstorie generate da un mezzo, che si propagano su altri mezzi per arrivare forti ed efficaci al consumatore. Chiudi cento metri di strada a New York, mettici una giornalista con una storia da raccontare, le Manolo Blahnik come “product placement”, tre coetanee col dialogo brillante e abbiamo disegnato un nuovo modo di vivere al femminile.
Ecco che la narrazione diventa, in questo caso, il pretesto per riposizionare tante marche di lusso. Penso che oggi senza narrazione non passi comunicazione: ecco il settimanale che dedica mezzo numero all’estro di Mourinho o la TV che trasforma la finale di un talent show in un evento magnetico, il web che anticipa il finale di Lost, il cinema che diffonde la magia degli uomini blu, la radio che dà voce alle storie delle persone, i manifesti che raccontano di intelligenti che criticano e di stupidi che creano.
Chi cliccasse sull’icona film del proprio smartphone potrebbe trovare una scena del momento topico di Sex and the City in cui mister Big non si presenta al matrimonio con Carrie. Lei è presa dal panico, non sa dov’è il suo telefonino e per chiamarlo ne chiede uno alle tre amiche. Samantha le passa un’Iphone e lei, tra lo stupore degli invitati, dice: “no, questo non lo so usare” e afferra un telefonino antelucano per chiamare. La sua risposta, quella risposta collocata nel momento topico del film, ha innescato una storia. Un minuto dopo quel frammento di narrazione era su Twitter, rilanciato da gruppi di Facebook, finito in tutti i telegiornali, ripreso dai quotidiani. Una storia che ha sorvolato veloce tutti i media ed è planata, immaginiamo, attraverso una fibra ottica sulla scrivania di un libito Steve Jobs sul cui Iphone potrebbe essere apparso anche un sms: “questa te la manda BlackBerry”. Questo è il labirinto con tutte le sue colonnine luminose, le sue contraddizioni, le sue strade.
É qui che si gioca la competizione: narrazione, rilevanza dei contenuti, caratterizzazione dei mezzi, magnetismo dell’evento. Una sapiente alchimia creata per cercare una forte empatia con il pubblico Noi la nostra parte nel labirinto la facciamo. Nel primo semestre di quest’anno abbiamo tessuto la tela al limite delle nostre possibilità. L’andamento positivo (+4%) degli investimenti pubblicitari dipende dalla capacità di rischiare, dall’attitudine all’innovazione, dalla fiducia nella collaborazione tra le nostre aziende ed i mezzi, dalla competenza dei centri media e dalla disponibilità delle agenzie a vincere l’unica gara che conta davvero: la valorizzazione delle nostre marche. La parola “gara” spesso genera giustificate preoccupazioni.
Per quanto mi riguarda, penso che troppi inviti ad una gara facciano perdere di vista il traguardo: la pubblicità non è solo creatività, ma anche una feconda relazione tra aziende ed agenzie fondata sulla capacità di individuare le corrette strategie e su una solida partnership che dura nel tempo. Oltretutto una gara che coinvolga tre agenzie è più che sufficiente per permettere all’azienda di individuare quella giusta.
Un ultimo irrinunciabile invito lo rivolgo a noi tutti: cerchiamo di essere più trasparenti. Non c’è niente di meglio della trasparenza per affrontare un labirinto. Accendiamo le guide luminose: dati precisi e informazioni chiare, mai come oggi ne abbiamo tutti bisogno. Questa è la moneta di scambio su cui nasce la fiducia reciproca. I sistemi di rilevamento, le tecniche di ricerca devono affinarsi per cogliere, nella loro interezza, i fenomeni in atto. È un percorso difficile, lo sappiamo, ma sappiamo anche che la conoscenza è l’unica bussola per orientarci nel labirinto.
Abbiamo bisogno di ricercatori esperti, di visioni e di visionari. Cosa sarebbero le pareti di un labirinto senza il gesto di un’artista o senza il critico che ne interpreta il linguaggio? Cosa sarebbe la comunicazione senza un istinto che ne definisce i confini? Cosa sarebbe il mercato senza l’abilità di immaginarne gli sviluppi? Abbiamo perciò chiesto a Nicolas Bourriaud, Alex Bogusky e Franco Bernabè di aiutarci a capire.
Tre B pensanti e una formula: B al cubo uguale linguaggio, strategie, innovazione. Da questa equazione sono sicuro emergeranno spunti utili a leggere il futuro così come sono certo che in questo labirinto non ci perderemo.
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