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La trasparenza delle immagini

11/04/2013

Le infografiche sono ormai diventate uno strumento narrativo di uso comune fra coloro che vogliono essere certi di evitare le modifiche e le distorsioni tipiche dei giornalisti da un lato e dei social media dall'altro. Ma come essere certi della correttezza, dell’imparzialità e dell’autorevolezza dei contenuti? Quali le responsabilità dei comunicatori? La riflessione di _Toni Muzi Falconi._

Nel 1963 (cinquanta anni fa) lavoravo alla 3M Italia che aveva da poco introdotto sul mercato la lavagna luminosa (qualcuno ricorda?), uno strumento che proietta lucidi su uno schermo in ausilio a una discorso pubblico o una lezione in classe.
Fra i miei compiti, oltre a occuparmi del servizio relazioni con la stampa, anche quello di portare la lavagna in scuole e nelle aziende, fare dimostrazioni soprattutto argomentando come una immagine vale 100 parole. Nell’universo visivo di oggi direi che l’argomento è largamente “digerito” e non meriti ulteriori menzioni.
Se non fosse che, da un paio di anni, i relatori pubblici e comunicatori delle organizzazioni (i cosiddetti “storytellers”…) hanno largamente adottato la tecnica di costruire e diffondere infografiche per raccontare ai giornali e direttamente a pubblici ben individuati (anche, ma non solo, attraverso la rete) storie complesse e ricche di dati che normalmente richiederebbero decine e decine di pagine.
Si tratta di operazioni abbastanza complesse ma di grande efficacia. Con una sola occhiata a queste visualizzazioni grafiche si riesce a capire velocemente e facilmente l’evoluzione dinamica della questione che si vuole raccontare. In effetti, il nostro lavoro di relatori pubblici non ha tanto a che fare con la disseminazione di messaggi (un compito più proprio dei pubblicitari), quanto di argomentare concetti e storie complesse, tanto che preferiamo parlare di contenuti e stiamo abbandonando il termine messaggi.
Un tema qualsiasi viene esplorato secondo una tecnica narrativa con testi di grande sinteticità, ricchi di cifre, dati e immagini, quasi sempre in verticale, secondo lo stile dell’albero genealogico. Sapendolo fare, si riesce davvero ad attirare l’attenzione degli altri, raccogliendo una storia in una unica ed efficace immagine visiva.
Siamo saliti professionalmente su questa corriera con sorprendente rapidità – vista la almeno iniziale complessità tecnica dell’artefatto, oggi però assai semplificata – non tanto perché siamo bravi a costruire grafici (quelli della mia generazione, e anche di quella successiva, lasciano molto a desiderare), ma soprattutto perché siamo noi che decidiamo le informazioni da inserire… e nessun giornalista, nessun blogger, nessun censore può modificare la nostra infografica. Certo: può non pubblicarla , criticarla, sbeffeggiarla ma non ne può impedire la circolazione. E poi, ne girano ormai talmente tante che “dare loro la caccia per vedere se le info che contengono sono ok” è una impresa impossibile.
Ecco allora che la infografica è diventato uno strumento narrativo di uso comune fra coloro che vogliono essere certi di evitare le modifiche e le distorsioni tipiche dei giornalisti da un lato, e dei social media dall’altro. Già, la questione però assume un altro aspetto: come fa il lettore a sapere se la storia è raccontata esaltando i dati favorevoli, nascondendo quelli sfavorevoli; se il taglio è totalmente, in parte o per nulla di parte. Se il lettore si forma una opinione in base ad una infografica (e tutte le ricerche ad oggi indicano che così succede) come e chi lo protegge dal farsi una opinione sbagliata? Ma, poi, ha davvero bisogno di protezione?
I canali di ricezione delle infografiche sono almeno due: i media tradizionali e quelli media digitali. Rispetto ai primi, se i giornalisti potessero controllare quello che pubblicano prima di farlo la questione posta non si porrebbe. Ma abbiamo già scritto qui e qui che questo non è più possibile.
Sarebbe però utile, anzi essenziale, che la fonte di provenienza della infografica venisse esplicitata dal giornalista dando così un avvertimento al lettore che l’immagine visiva che accompagna questo o quell’articolo non è frutto del suo lavoro professionale. Lo stesso vale per i blogger. Rispetto invece agli altri canali digitali diretti, la questione non può non ricadere sulla fonte primaria: il comunicatore.
Ed ecco che riemerge, come ho già scritto qui, la questione della responsabilità del relatore pubblico. Mi parrebbe essenziale, ad esempio, che le associazioni professionali del settore (sono almeno due: Ferpi e Assorel, la prima composta da singoli professionisti interni o esterni alle organizzazioni, la seconda composta dalle imprese di relazioni pubbliche) indicassero ai loro soci delle linee guida di comportamento di trasparenza nella produzione e diffusione delle infografiche.
Sarebbe anche utile uno spazio digitale accessibile alle scuole, alle università, agli utenti (clienti che pagano, associazioni di tutela, singoli curiosi) che aiuti, con tanto di worst practice, a spiegare come non farsi turlupinare da questa nuova moda, peraltro davvero utile per chi voglia fare bene il proprio lavoro.
L’argomento è emerso proprio l’altro giorno in un webinario sui Next Media (Pinterest, Instagram etc..) opportunamente promosso da Ferpi e condotto dal giovane e bravo Gabriele Cazzulini. Certo che dobbiamo imparare sempre meglio le nuove diavolerie che la rete ci propone, ma per poi usarle in una pratica professionale responsabile.
Fonte: Huffington Post
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