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Niente di più facile, niente di più difficile

09/02/2011

Un manuale utile e concreto. L’esperienza di comunicatori di _Stefano Lucchini_ e _Gianni Di Giovanni_, responsabili comunicazione di Eni, confluisce nelle pagine di questo nuovo libro ricco di analisi e consigli pratici. Uno strumento efficace per tutti i professionisti della comunicazione, si apre con la prefazione di _Ferruccio De Bortoli_ che vi riproponiamo.

di Ferruccio De Bortoli
Presento molto volentieri questo manuale di comunicazione aziendale. Gli autori, Gianni Di Giovanni e Stefano Lucchini, sono professionisti che conosco e apprezzo da tempo. Hanno sperimentato, nei loro percorsi di carriera, in settori d’attività molto diversi l’uno dall’altro e con capi azienda dai profili largamente differenti, linguaggi e modalità di comunicazione d’impresa innovativi ed efficaci. Sono nel loro campo dei maestri, ma scrivendo questo manuale non sono mai venuti meno a una regola aurea che a noi giornalisti, non di rado, manca: l’umiltà. E l’umiltà è la veste migliore della competenza, un pregio non da poco. L’umiltà si accompagna al rispetto dell’altro, delle sue ragioni e delle sue scomode posizioni. In molte occasioni, in questi anni, ci siamo trovati su versanti opposti, in situazioni spesso conflittuali. Il reciproco riguardo non è mai mancato.
Questa considerazione preliminare mi dà modo di sottolineare una questione di principio, a mio avviso fondamentale, del mondo della comunicazione. Confondere il ruolo dei comunicatori con quello dei giornalisti è un grave errore. Per tutti. Separare le due professioni non vuol dire classificarle, far precedere l’una all’altra. Significa semplicemente rispettarle. Se il primo, il comunicatore, s’identifica troppo nelle necessità del secondo, il giornalista, magari per ingraziarselo o fargli dire ciò che non si ritiene di rendere pubblico direttamente, commette nello stesso tempo due passi falsi. Con il primo, viene meno alla sua missione di dirigente o funzionario di una società che ha regole, contratti e obblighi morali precisi; con il secondo inquina il rapporto con il mondo dei media, disperde nell’ambiente una polvere sottile che rimane. Non si vede, ma rimane. L’informazione corretta identifica e rende trasparenti interessi e responsabilità. Altrimenti vi è reticenza e manipolazione. Allo stesso modo, se il giornalista si identifica troppo nel ruolo del comunicatore, infrange una norma deontologica e tradisce il rapporto fiduciario con il proprio lettore (e anche con il proprio editore). Insomma, fa un altro mestiere: da clandestino.
La questione è delicata e coinvolge l’etica della funzione delle due professioni. Entrambe sono chiamate, anche nelle piccole cose quotidiane, a prendersi cura della materia prima più importante per una democrazia: la fiducia nel prossimo. Tradirla può essere persino vantaggioso nel breve periodo (gonfiare un risultato, esasperare un conflitto, magnificare un protagonista dell’economia o della politica, condurre una campagna di stampa strumentale, negare un problema di carattere pubblico, mettere la sordina a una questione sociale, ecc.). Ma in tempi più lunghi, il gioco per la società è sempre negativo. Per i singoli, non so. Dipende. Se il delitto paga, purtroppo, la farà franca anche il delitto di falsa comunicazione o di giornalismo d’azzardo. Ma pensate un attimo al valore della reputazione, di un’azienda, di un imprenditore, di un giornalista. Che cosa contribuisce a formarla questa reputazione? La coerenza e l’onestà intellettuale, misurate su un tempo più lungo di quello di un bilancio, del mandato di un consiglio e della durata della direzione di un giornale o di una televisione. Si può sbagliare. Certo, e non è infrequente. Riconoscere l’errore può costare, ma alla fine giova. Negarlo può essere inevitabile, ma prima o poi un prezzo lo si paga. Forse non personalmente, ma l’azienda o l’istituzione per la quale si lavora non potrà sottrarsi a un inevitabile rendiconto storico. Il tempo nella comunicazione è ugualmente galantuomo. Forse è un po’ più lento e zoppicante.
La fiducia è nelle mani di chi comunica. Ognuno di noi, comunicatore o giornalista, occupa un tratto di una lunga catena informativa che alla fine arriva al pubblico, al consumatore o all’utente e ne orienta le scelte, politiche e di vita; una sequenza indistinta di messaggi che contribuisce a sedimentare un sentimento comune, uno stato d’animo collettivo, formato da granelli di conoscenze e scampoli di verità, frammisti a ignoranze e pregiudizi. Un grumo di saperi e di umori che forma un capitale sociale in eterno movimento ma soggetto, in un’improbabile quotazione di mercato, ad acquistare o a perdere valore. Chi comunica ne sente le pulsazioni, ne avverte i battiti. Meglio di altri. Ed è per questa semplice ragione che la comunicazione, corretta e responsabile, societaria e istituzionale è parte integrante di un sistema di garanzie che irrobustisce l’opinione pubblica, la vera architrave di una democrazia. Sarebbe bene non dimenticarlo, come accade troppo di frequente.
Gli autori di questo manuale sono prodighi di consigli pratici, ma nei primi capitoli sono estremamente attenti a trasmettere un’altra regola aurea. Sapere perfettamente che cosa e chi si comunica e avere un’idea sufficientemente precisa del pubblico di riferimento. Spesso non è così; si va a tentoni o per approssimazioni artigianali. Una comunicazione ridondante, imprecisa o fuori target trasforma l’utente finale in quello che Max Picard definiva, disprezzandola, una mera “appendice del rumore”. Un rumore di fondo che spesso non consente di distinguere il sostanziale dall’effimero. Ciò è particolarmente vero nella rete che esalta il meglio e il peggio (che tende a prevalere) della comunicazione. E nella rete la correzione delle tendenze è complessivamente più difficile. La memoria multimediale è resistente e infida; il diritto all’oblio semplicemente non esiste, come tendono ad attenuarsi sia la privacy sia la tutela di autori e opere.
Il manuale non trascura di raccontare casi pratici, e ormai di scuola, come quello della Nigeria e si incarica, alla fine, di distinguere fra la comunicazione delle persone, dei leader e quella delle imprese e delle istituzioni. Spesso la prima prevale sulla seconda. Ed è comprensibile: il capo è in carne e ossa, pecca di vanità come tutti. Assecondarla troppo è un altro errore fatale. Un errore comune che non permette, nelle situazioni di crisi, di separare agevolmente i destini personali da quelli delle aziende o delle istituzioni. E quando questo non avviene sono molti a pagare per errori non propri.
La comunicazione, infine, non è mai un processo lineare di messaggi trasferiti da una fonte a una generalità di utenti. Non prescinde mai dalle circostanze, dall’attualità nella quale è immersa. È un corpo a corpo continuo, contano l’esperienza ma anche l’intuito, la conoscenza delle regole ma anche una personale capacità di adattare ogni messaggio, senza alterarlo, al profilo dei suoi fruitori. Il filosofo francese Merleau-Ponty distingue fra le “parole parlate”, che creano chiacchiera includente e le “parole parlanti”, che generano
riflessione, discussione e condivisione. Una buona comunicazione non dovrebbe perdere di vista questa distinzione, anche se probabilmente nelle “parole parlate” c’è più mestiere e furbo disbrigo della quotidianità.

Niente di più facile, niente di più difficile
Manuale (pratico) per la comunicazione
S. Lucchini, G. Di Giovanni
Fausto Lupetti Editore, 2010
pp. 176, € 15,00
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