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Onestà intellettuale e meritocrazia

29/03/2011

La campagna del PD ha suscitato feroci polemiche, non altrettanto lo spot per la promozione della cultura italiana con testimonial il premier. L’acquiescenza nei confronti del potere ed il silenzio delle categorie professionali più legate alla comunicazione sono fra le cause di una scarsa affermazione della meritocrazia che _Mario Rodriguez_ individua nella sua lucida analisi.

di Mario Rodriguez
Onestà vorrebbe che almeno la stessa attenzione dedicata alla campagna più recente del Partito democratico e del suo segretario Bersani (“oltre”) venisse dedicata allo spot della ministra Brambilla finalizzato alla promozione della cultura italiana con il testimonial di eccezione Silvio Berlusconi. Quello che con l’indice puntato chiede: “lo sapevi?”.
E se ci fosse la stessa verve critica bisognerebbe dire che non solo lo spot ha un testo che fa rabbrividire, delle immagini stantie ma che è il miglior “cattivo” esempio di spot del nostro tempo: non sono chiari gli obiettivi che si propone, né le persone cui si rivolge, né c’è coerenza tra emozione sollecitata e testimonial scelto. Qualcuno potrebbe anche suggerire di rivolgersi alla Corte dei conti rilevando che la vera finalità dello spot è fare propaganda per un leader politico in difficoltà con soldi dello stato.
Ma tant’è. La campagna del Pd genera critiche e quella del Governo non le genera anche se meriterebbe una lucida e professionale indignazione. Ed anche in questo caso sembra opportuno andare oltre (lo dico con ironia), cercare di capire perché succedono le cose.
Vedo due ragioni principali. La prima è che si propende a criticare di più la parte nella quale ci si identifica, la squadra per cui si tifa o la fonte della novità che si aspetta. Ma questo confermerebbe che nel mondo della stampa e delle professioni legate alla comunicazione vi è un’attesa diffusa verso il Pd che non trova risposta. Anche chi sostiene il governo vorrebbe che l’opposizione fosse in grado di avanzare proposte e comportamenti in cui identificarsi o, comunque, capaci di bilanciare le spinte.
La seconda ragione è che proprio in questi ambiti professionali è diffusa un’opportunistica acquiescenza nei confronti del potere, dei detentori di tutti gli snodi decisionali, quelli che possono determinare fortuna o disastro nel mondo della comunicazione.
Val la pena di rilevare, almeno di sfuggita, che in questi anni di crisi proprio le categorie professionali più legate al mondo della comunicazione, dalla pubblicità alle relazioni pubbliche, quelle maggiormente frequentate e costituite da giovani siano state assenti da qualsiasi ragionamento sul funzionamento di questo importantissimo snodo della nostra democrazia e dell’efficacia dei meccanismi economico sociali. Sono queste categorie che dovrebbero beneficiare dall’affermarsi di modalità di scelta meritocratiche, dall’affermazione di valori professionali, dalla fairness. E invece anche questi profili professionali tipici della modernità nel nostro contesto sociale appaiono interessati ad essere cooptati, a trovare il contatto giusto, a fare la finta gara piuttosto che rischiare che si affermi davvero la competizione professionale. Meglio una briciola sotto il tavolo che una bella fetta di torta.
Ma attenzione. Non è colpa delle giovani generazioni di professionisti. La saggezza popolare lo dice da tempo: il pesce puzza dalla testa. Le maggiori responsabilità sono proprio in quei sistemi di rappresentanza di categoria – eredità di una cultura corporativa che ha contrastato l’affermarsi di una sana cultura della libera (e leale) competizione e che ha radici profonde nella nostra storia patria – che svolgono una funzione perversa: riproducono la cultura della cooptazione invece di affermare quella della meritocrazia.
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