Alex Moscetta
È tempo di adoperarci come comunicatori e al tempo stesso come professionisti delle relazioni nella costruzione di una nuova narrazione e di un discorso di pace.
Come si può parlare di pace in situazioni di guerra che oggi vediamo al centro di ogni giornata? Si può fare? Ce lo chiediamo oggi con riferimento all’Ucraina, alla Palestina e alle tante situazioni di crisi troppo spesso dimenticate. E al tempo stesso con la recente nuova era di Trump - aggressiva e dura -. Il “buon senso” sembra dirci che non è possibile. Tendiamo così, generalmente, ad aspettare che la guerra finisca (o, meglio, che venga vinta) per poi parlare di come creare le condizioni per garantire la pace, una pace stabile!
Ma che vuol dire “pace”? Pace vuol dire, riprendendo la poesia di Bertolt Brecht, che a non tutti piace lo stesso gioco, ma non per questo bisogna farci la guerra. Vuol dire libertà di pensiero e di opinione, equa distribuzione delle ricchezze, rispetto delle opinioni degli altri, delle culture altre, delle religioni altre. Tutto questo implica il mettere in discussione le nostre identità, accettando altre identità.
Qui entra in gioco allora una scelta: essere responsabili di comunicare la pace e non la guerra. È una questione aperta, apertissima. È in fondo simile alla stessa questione che in questi giorni è tema centrale dell’Unione Europa: quale pace costruire e come? Con il riarmo e ampliando gli eserciti o il dialogo e la mediazione?
Il linguaggio della comunicazione può aiutare le persone. C’è una doppia sfida dei comunicatori di oggi: da un lato quello di essere capaci di trasmettere la memoria civile e di renderla viva in assenza di testimoni, dall’altro la costruzione di un discorso di pace. È sicuramente necessario del tempo affinché la comunicazione possa far entrare questo cambio di passo di non cedere alla guerra e costruire un discorso di pace. In fondo oggi parlare di pace è andare contro corrente, è essere minoranza. Ma in fondo chi lottava contro lo schiavismo non si trovava in minoranza?
La comunicazione responsabile della pace è capovolgere il pensiero bellico dominante, scegliendo di non cedere al discorso della massa. È narrare dramma e speranza. Il dramma della guerra (madre di tutte le povertà) e la speranza delle persone che non vogliono la pace.
Concludo con le parole di Papa Francesco che nell’ottobre 2024 ha detto riguardo al ruolo dei comunicatori: "Siete chiamati a un compito grande ed entusiasmante: quello di costruire ponti, quando tanti innalzano muri, i muri delle ideologie; quello di favorire la comunione, quando tanti fomentano divisione; quello di lasciarsi coinvolgere dai drammi del nostro tempo, quando tanti preferiscono l’indifferenza. Sogno una comunicazione che riesca a connettere persone e culture. Sogno una comunicazione capace di raccontare e valorizzare storie e testimonianze che accadono in ogni angolo del mondo, mettendole in circolo e offrendole a tutti".
Oggi abbiamo delle basi da cui ripartire e quindi spero che ci sia spazio per parlarne e per adoperarci come comunicatori e al tempo stesso come professionisti delle relazioni (centrali in questo impegno) nella costruzione di una nuova narrazione e di un discorso di pace.
Crediti immagine: Hiroshima Appeals 1983 “Burning Butterflies” by Yusaku Kamekura