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Pubblicità, Relazioni Pubbliche: a che punto siamo.

28/03/2006

Un commento di Toni Muzi Falconi e due risposte di Furio Garbagnati.

1."Quando suonerà il tuo cellulare, la prima cosa che ti verrà in mente per qualche giorno è che quel suono arriva da Pepsi" così Dawn Hudson, amministratore delegato di Pepsi USA spiega a Stuart Elliott del New York Times, cosa c'è dietro l'ultima svolta della pubblicità americana, quell'engagement che si propone di traghettare la più diffusa espressione della comunicazione d'impresa, oggi particolarmente sotto tiro per la sua irresponsabilità sociale oltre che per la sua non più dimostrabile efficacia, verso lidi di maggiore consenso, sia fra le imprese che investono che dei consumatori con i quali desidera avviare o consolidare una relazione.Il caso Pepsi è presto detto: dal sito Pepsi sarà possibile scaricare nuove e creative suonerie di telefonia cellulare digitando password recuperabili sotto i tappi delle bottiglie.Una tradizionale operazione di promozione, ma che implica comunque una brand experience' più intensa e prolungata rispetto a quella di un normale spot televisivo.Per engagement' - dice sempre a Elliott, Joseph Plummer, capo delle ricerche della Advertising Research Foundation - si intende una relazione temporanea con il consumatore guidata dall'emozione".Si tratta di un criterio quanto mai discutibile, ma che rappresenta una svolta rispetto a quelli classici della consapevolezza o del ricordo del brand che non possono più realisticamente essere usati da soli per indicare se una campagna sia stata o meno efficace."L'altro grande cambiamento continua Plummer - è che l'engagement, quando si produce, si produce dentro il consumatore e non ci arriva dal medium, mentre oggi riceviamo soprattutto indicatori che ci arrivano dai media: i ratings, le readership, i listenership, i click through etc..".L'articolo del New York Times continua a lungo e illustra le tante sfide che attendono la pubblicità, le cui agenzie si sono trovate impreparate a gestire una crisi da lungo tempo prevedibile, poiché eccessivamente concentrate nel soddisfare le aspettative di dividendi dei loro azionisti che non nel soddisfare le aspettative dei loro clienti e dei consumatori. L'attenzione all'engagement ci porta dritti dritti alla relazione e non soltanto alla vendita del prodotto.2.E le relazioni pubbliche?Possibile che dopo tanti anni di discussione sulla relazione come finalità e la comunicazione come strumento, la nostra offerta si basi quasi sempre soltanto sul tradizionale metodo push e persuasivo in supporto agli investimenti pubblicitari?Possibile che la nostra migliore comunità professionale abbia prodotto così poco in termini di innovazione concreta, operativa e misurabile??3.Nel presentare la scorsa settimana il suo programma di nuovo presidente di Assorel, il collega Furio Garbagnati sottolinea fra l'altro e giustamente le storture e opacità delle gare e il dumping attuato dalle strutture meno professionali.Vorrei però chiedere a Furio un ulteriore approfondimento su due questioni fra loro correlate:° le agenzie dicono che il mercato va male e che c'è una esasperata competitività.., mentre a me risulta invece che sempre più risorse vengono investite in attività di comunicazione da organizzazioni private, pubbliche e sociali del nostro Paese.Come spiegare questa contraddizione? A me pare sia una contraddizione solo apparente poiché se è vero che gli investitori tradizionali non crescono i loro investimenti è altrettanto vero che un sempre maggior numero di organizzazioni investono...E' possibile allora che le agenzie si attardino ad offrire la stessa gamma di offerta ad un segmento ristretto e stereotipato di clienti blue chip localizzati al centro, mentre in periferia (non solo geografica, ma rispetto ai new entry) sono quei tanti giovani neolaureati che escono dalle nostre Università a trovare lavoro nel precariato più totale per soddisfare la crescente domanda delle piccole imprese, del commercio, degli enti locali, del non profit, del marketing del territorio e di quello politico?Se questa fosse una interpretazione verosimile, una conseguenza sarebbe che anziché nuovi soggetti consapevoli della domanda, la presenza di tanti giovani inevitabilmente inesperti finirà per tarpare le ali alla crescita poiché produrrà rilevante insoddisfazione in quei nuovi investitori. Certo, qualcuno finirà pure per rivolgersi successivamente a una offerta più professionale, ma una gran parte tenderà a non insistere ed a migrare le stesse risorse verso altre attività..°l'altra questione ha a che fare con la relazione fra domanda e offerta e la sua tendenziale simmetria. Non voglio esagerare, ma fino alla fine degli anni ottanta le poche agenzie sul mercato decidevano prodotto, prezzo e modalità di attuazione poiché, salvo eccezioni, la domanda era incompetente. La competitività dunque si basava, più ancora che sul prezzo, sulla innovazione e sulla competenza e cultura professionale degli operatori. Allora le agenzie più serie investivano in formazione professionale e in ricerca e sviluppo. Dopo il processo di finanziarizzazione indotto dall'arrivo delle grandi conglomerate con la crescita della pressione per forzare le agenzie a produrre profitti trimestrali sempre più elevati, sono calati sia gli investimenti in formazione che in innovazione, ricerca e sviluppo.Mentre questo accadeva, e in parallelo, è però parecchio cresciuta la competenza della domanda perché molte organizzazioni hanno percepito l'importanza di un presidio professionale interno e competente. Quindi è cambiato l'equilibrio e la qualità della domanda (sempre, si intende, in quel segmento di blue chip) tende oggi a prevalere sulla offerta.Se queste considerazioni appaiono verosimili, mi chiedo se non si ponga alle agenzie più serie un dirimente bisogno di:°investire in innovazione, ricerca e sviluppo ora e subito, per non trovarsi nella stessa situazione in cui si trova oggi la pubblicità (vedi sopra).E questo implica ripensare il modello tradizionale della comunicazione-a importato dalla pubblicità dimenticando che la comunicazione efficace si basa sul dialogo e lo scambio; ripensarlo al punto di cambiare il nostro lessico per cui una campagna è un programma, un messaggio è un contenuto, un target è pubblico influente e così via.. ;°investire in formazione professionale ora e subito, per attirare almeno i migliori di quei giovani neolaureati, crescerli, dar loro una seria cultura della relazione, renderli consapevoli di appartenere ad una comunità professionale e metterli così in condizioni di non deludere la nuova domanda, sviluppando anche rapporti organici con le Università per evitare eccessiva discrasia fra offerta e domanda di lavoro.Se queste sono le sfide che attendono le agenzie, assai più cogenti sono quelle che investono i nostri colleghi che operano all'interno delle organizzazioni.Ma di queste parliamo un'altra volta.Per ora apriamo una discussione sul ruolo dell'offerta. Che ne dite? (clicca qui per dire la tua).tmfEd ecco la prontissima, puntuale, esauriente e puntuta la risposta di Furio Garbagnati:E' vero: la comunità professionale ha prodotto non abbastanza in termini di innovazione concreta, operativa e misurabile. Non è vero che la nostra offerta sia in tutto o prevalentemente a supporto degli investimenti pubblicitari : anzi è da tempo che la domanda più avveduta opera scelte non solo intermini di marketing mix ma anche in termini di marketing opportunity. La oggettiva crisi della pubblicità, non come volumi, ma come modello, ha spinto verso scelte non più a "supporto di" ma "in alternativa a" valorizzando proprio la scelta relazionale.Per ciò che concerne il rapporto mercato/agenzie in breve sintesi rispondo alle questioni sollevate da Toni:

E' oggettivamente difficile dire quante siano le risorse investite nel nostro Paese in attività di relazioni pubbliche ( parlare di investimenti in comunicazione  mi sembra un po' troppo generico ) anche se analisi statistiche parlano di una crescita fra il 2.5 ed il 3.5 su base annua per i prossimi anni. In questo contesto francamente non mi risulta che le agenzie dicano che il mercato va male. Le agenzie Assorel  dichiarano anzi una crescita lievemente superiore a quella del mercato. La stessa crescita del numero delle agenzie, la loro presenza territoriale sempre più diffusa, la nascita di forti specializzazioni sono tutte dimostrazione di grande vitalità del mondo delle agenzie e dell'abbandono della focalizzazione sia della offerta sia della domanda sul segmento ristretto dei clienti blue chip. Altro e diverso è il problema della esasperata competitività e della ricerca di acquisire quote di mercato con il solo strumento del prezzo. Il sottolineare i problemi legati alle gare e al dumping  significa da un lato portare avanti tematiche relative alla trasparenza e dall'altro fare emergere il valore reale dei nostri servizi e della nostra consulenza. Mi sembra contraddittorio sostenere che un numero sempre maggiore di organizzazioni, piccole imprese, enti locali etc, investono e poi affermare che  utilizzano il lavoro precario di tanti ( troppi? ) giovani neolaureati. E' questo un effettivo investimento? Non credo. Mi sembra, ancora una volta, un metodo sbagliato da parte della domanda o, purtroppo, il frutto della incapacità della nostra professione di farsi percepire come elemento strategico di governo.
Verissimo: un tempo la competitività si basava sull'innovazione, sulla competenza e sulla cultura professionale e poco, anzi pochissimo sul prezzo. Certamente perché la domanda era incompetente (o meglio non aveva un chiaro mercato di riferimento e quindi era difficile posizionare il punto d'incontro fra prezzo e servizio) ma anche molto perché il mercato cresceva double digit. In un mercato maturo, quale quello attuale, il prezzo è sempre e giustamente un elemento di competitività, quello che io contesto è che divenga" l'elemento " e quasi una variabile indipendente e quindi distorsivo per il mercato stesso. Non sono d'accordo invece sul fatto che oggi non si investa in formazione e ricerca e non sono certamente d'accordo sul fatto che ciò sia dovuto alla finanziarizzazione  indotta dall'arrivo delle grandi conglomerate. Ci siamo sempre riempiti la bocca, fin troppo, sostenendo che è dal mondo anglosassone che provengono le maggiori spinte innovative sia in termini di strumenti sia in termini di  modalità di intervento, non possiamo quindi ora imputare alle multinazionali di avere frenato il processo di innovazione e di formazione. Né possiamo sostenere che l'attenzione al profitto freni l'investimento anzi ogni buon economista direbbe esattamente il contrario. L'evoluzione dei processi operativi, i controlli di qualità, l'informatizzazione dei sistemi aziendali , la nascita di specializzazioni settoriali a forte accentuazione contenutistica sono anche il frutto di modelli importati nel nostro paese dalle grandi conglomerate e che hanno trovato applicazione diffusa presso tutte le agenzie nazionali più attente ed evolute. Certamente, come ho detto all'inizio non è stato fatto abbastanza ma è anche vero che il mercato ha dovuto raffrontarsi con una domanda molto spesso più tattica che strategica e che ha teso a premiare di più l'innovazione sugli strumenti che non sui contenuti. Tuttavia è questo senza dubbio il tema centrale per la crescita della nostra professione e non vi è dubbio che tutte le agenzie Assorel  attribuiscano agli aspetti formativi ed alla innovazione una importanza prioritaria e prova ne è che si stanno avviando verso modelli di certificazione di qualità esattamente come le agenzie britanniche. Tutto questo anche per rispondere ad una qualità della domanda che, concordo, è sempre più elevata.
Pur con i distinguo dell'analisi, condivido appieno le conclusioni /auspici di Toni  che sono non solo parte integrante ed importante del programma di attività di Assorel per il prossimo biennio ma che, lasciatemelo dire, fanno anche parte integrante del DNA di tutti gli associati e che rappresentano il modello a cui le nostre imprese si ispirano.Furio Garbagnati
 
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