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Quale modello operativo per l'Associazione? Ecco una proposta

04/05/2009

Il nuovo scenario professionale e il recente dibattito sul futuro di Ferpi suggeriscono la necessità di ripensare il modello operativo dell’Associazione. Toni Muzi Falconi lancia l’idea di sviluppare una prima proposta ri-organizzativa in stile 2.0. Tutti i soci, infatti, sono invitati ad inviare il proprio contributo commentando questa nota introduttiva che si tradurrà in un articolo "collettivo" sul prossimo numero del magazine, Relazioni Pubbliche.

di Toni Muzi Falconi


L’obiettivo di questo ‘pezzo introduttivo’ è di invitare tutti i lettori del sito a partecipare ad un lavoro collettivo destinato a tradursi in un articolo da pubblicare (a firma di tutti i volontari che vorranno contribuire) sul prossimo numero del nostro Magazine che verrà distribuito in concomitanza con la nostra Assemblea Generale.


Il tema che propongo è quale modello operativo per una associazione professionale di relazioni pubbliche che voglia traguardare con successo i prossimi anni nel nostro Paese.
Partirò con alcune premesse, spiegherò quali sono gli esempi di successo nel mondo e quali le debolezze più marcate, rifletterò sulle esperienze e sulla cultura organizzativa di Ferpi e poi farò delle proposte.


Alcuni soci si sono già attivati su questo a partire da Claudio De Monte Nuto (vedi il suo commento qui). Ma qualche settimana fa anche Rosanna Dantona ha sviluppato un intervento invocando un nuovo modello di business della consulenza di relazioni pubbliche cui avevano risposto altri soci (vedi le sue riflessioni qui).
Naturalmente l’oggetto dell’analisi è diverso da quello esposto da Rosanna e commentato dagli altri, ma non si sa mai che anche questo argomento possa essere di loro interesse.


Premessa generale


1.
Assai prima di questa discontinuità (alcuni la chiamano ancora crisi…) le relazioni pubbliche erano la sola professione conosciuta (non tutti sono convinti che lo sia, ma noi lo assumiamo) in cui meno del 10% di coloro che la praticano fanno parte di una associazione professionale.


Come alcuni sanno ho calcolato nel 2005 (e nessuno mi ha smentito) che nel mondo i relatori pubblici (coloro che per oltre il 50% del loro tempo professionale aiutano le organizzazioni a governare con maggiore efficacia le relazioni con i rispettivi pubblici influenti) sono fra 2.5 e 4 milioni.
In Italia (e anche Stefano Rolando è arrivato allo stesso risultato adoperando indicatori diversi) sono 100 mila.


Negli Stati Uniti la PRSA ha 23 mila soci e le statistiche ufficiali del governo indicano 300 mila operatori. In Inghilterra il CIPR ha 9 mila soci e loro stessi stimano in oltre 100 mila gli operatori. Il solo Paese in cui la percentuale del 10% viene superata è la Svezia (4 mila soci su 25 mila operatori). Vicini al 10% anche la Nuova Zelanda e il Sud Africa.
In Italia, anche sommando tutte le associazioni professionali che raccolgono operatori di relazioni pubbliche e togliendo qualche doppia tessera non si supera le 5 mila unità.


Le ragioni oggettive di questo fenomeno sono molteplici: per me la più importante è che moltissimi relatori pubblici non sono consapevoli di esserlo; poi c’è il fatto che, con l’eccezione di 7 paesi nel mondo, non è necessario fare parte di una associazione professionale per esercitare la professione; quindi arriva il fatto che molti colleghi sanno di fare relazioni pubbliche ma preferiscono non associarsi ad una associazione che abbia relazioni pubbliche nel nome; infine, il mondo è pieno di persone che non si identificano in quello che fanno e che, se non obbligate, preferiscono non iscriversi.


Avendo però detto tutto ciò, dobbiamo anche pensare che nessuna delle associazioni professionali che conosciamo (la global alliance di cui la ferpi è co-fondatrice, ne ha come socie ben 66) soddisfa i propri associati, con la parziale eccezione della Svezia che è davvero un modello da studiare con attenzione.


2.
La discontinuità in cui ci troviamo mette a dura prova tutte le organizzazioni e fra queste anche le associazioni professionali, e non solo delle relazioni pubbliche. Tutti sono alla ricerca di un nuovo modello, di un nuovo quadro di riferimento. La disintermediazione delle funzioni classiche di una associazione professionale è rampante e il problema, sempre che si ritenga valga la pena sopravvivere perché nessun medico ce lo ha ordinato, è quello di studiare come re intermediarsi.


3.
Come suggerisce Italo Vignoli nel suo commento all’intervento di Rosanna la partenza deve essere zero based. Dobbiamo cioè prescindere dall’esistente e partire da zero.
Ecco la simulazione:


- sappiamo cosa intendiamo per relazioni pubbliche,
- sappiamo che in Italia ci sono 100 mila persone che in un modo o nell’altro le fanno,
- sappiamo che ogni singolo paesino ha qualcuno che le fa, o all’interno di organizzazioni (private, pubbliche, sociali) o come consulenti per più organizzazioni.


Presumiamo che abbia senso mettere insieme uno ‘spazio’ attraente e interessante per chi lo mette insieme e per chi potrebbe essere attratto a parteciparvi.
Nessuno di noi promotori intende guadagnarci, e quindi non siamo creatori di uno ‘spazio’ commerciale (inteso nel migliore dei modi), ma sappiamo bene che creare uno spazio e mantenerlo attraente e interessante ci vogliono persone e risorse economiche.


L’implicazione è che dobbiamo quindi creare uno spazio che riesca ad autofinanziare se stesso e anche il proprio sviluppo attraverso i contributi dei partecipanti a quello spazio oppure ad altri soggetti che abbiano interesse ad usare quello spazio con modalità accettate dai e condivise con i promotori.


Se poi tutto questo lo chiamiamo associazione professionale, va bene.
Che ne dite?
Chi parte per primo?
Se le premesse non le condividete ditelo subito così le mettiamo a posto.


La scadenza per il testo finale, datami da Giancarlo Panico, è per il 16 Maggio, quindi avrò bisogno di un paio di giorni per metterlo a posto. Data ultima di commento dunque il 14 Maggio.
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