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Quali strategie per contrastare le paure scatenate da una crisi?

13/12/2005

Un saggio pubblicato sul primo numero di Contatti, la prima rivista scientifica di relazioni pubbliche. Di Luigi Norsa


1. Introduzione
La nostra società appare contrassegnata dal succedersi di situazioni di crisi: disastri di origine naturale si accompagnano a disastri che tro­vano la propria origine nei comportamenti e nella condotta di esseri umani. Terremoti, inondazioni, epidemie, scuotono la società tanto quanto attentati terroristici, crisi finanziarie, incidenti industriali, con­taminazioni di prodotti alimentari, inquinamenti ambientali. Le ammi­nistrazioni pubbliche da un lato si trovano a dover gestire la comuni­cazione in situazioni di emergenza, imprese ed organizzazioni private dall'altro lato si trovano a fronteggiare la comunicazione in situazioni di crisi.
Sebbene i campi della comunicazione di crisi, della comunica­zione del rischio e del crisis management siano le aree delle relazioni pubbliche in cui è stato generato il maggior sforzo di razionalizza­zione e in cui sia stato sviluppato un approccio metodologico larga­mente condiviso, questa elaborazione ha consentito di costruire mo­delli e schemi tattici, mentre a livello strategico è stato possibile di­stillare solo delle linee guida e dei principi generali. Ogni situazione si presenta, infatti, come unica, fortemente influenzata non solo dalla re­altà dei fatti e degli eventi, ma anche dalle reazioni emotive che su­scita nelle varie componenti della società, dal luogo in cui si verifica, dal momento, dagli interessi in gioco, dagli altri eventi concomitanti e, più generalmente, dalle percezioni di chi ne è coinvolto.
Questo fa sì che mentre è possibile delineare i requisiti di una crisis room ideale piuttosto che standardizzare i ruoli di un'unità di crisi o i flussi di informazione durante una emergenza, è impossibile definire delle strategie standard per affrontare tipologie di crisi anche similari. Non è cioè possibile individuare un modello teorico di ge­stione della crisi (per il sabotaggio di prodotto, per esempio, o per l'incidente industriale in un impianto chimico) che possa reggere al confronto con la realtà pratica; anzi modelli operativi rigidi corrono il rischio di essere fuorvianti e di indurre ad approcci e comportamenti disastrosamente negativi.
2. Le paure generate dalla crisi  
Qualunque delle circostanze che ricadono sotto la definizione di "crisi", siano esse viste nell'ottica della agenzia o dell'istituzione pub­blica che deve gestire una calamità naturale o un grave attentato terro­ristico oppure nell'ottica dell'impresa che deve affrontare un incidente industriale o la contaminazione di un prodotto, ha come caratteristica l'insorgere di paure e timori diffusi, sia a livello di opinione pubblica e di "stakeholders" che fra gli stessi dirigenti delle organizzazioni coinvolte e fra i membri dell'unità di crisi.
La reazione del Governo spagnolo dopo l'attentato alla stazione madrilena di Atocha nell'imminenza delle elezioni politiche, per esempio, è apparsa chiaramente condizionata dalla paura che tale ter­ribile attentato potesse influenzare gli elettori e potesse prestarsi ad una strumentalizzazione da parte dell'opposizione sulla partecipazione della Spagna alla guerra in Irak. Gli osservatori politici concordano che l'elettorato spagnolo pareva indirizzato a favorire la sinistra già prima dell'attentato, ma la precipitazione con cui le autorità madrilene si sono lanciate a proclamare una "pista basca", ipotesi rivelatasi in­consistente nel giro di poche ore, e la frenesia comunicativa su questo fronte, ha alienato ulteriori consensi al successore di Aznar e, ha gene­rato la percezione che il Governo volesse ingannare l'opinione pub­blica (e che quindi esso stesso riconoscesse una propria responsabilità indiretta nell'attentato) alienando una maggiore fetta di elettorato, in un momento in cui una condotta più prudente gli avrebbe consentito probabilmente di recuperare consensi in reazione a una così brutale aggressione verso il paese.
La situazione di crisi, sia essa generata da eventi concreti, con perdite di vite umane o estesi danni materiali, come un disastro natu­rale o un incidente industriale, sia essa generata da rischi "percepiti" ma di scarsa portata reale o da eventi clamorosi, come il ritrovamento di tracce di benzene nell'acqua Perrier, ma senza sostanziali rischi per il consumatore, scatena quindi paure tanto fra i "pubblici" dell'organizzazione coinvolta che all'interno dell'organizzazione stessa.  Non esistono però modelli per affrontare i timori, le paure che un evento o una situazione improvvisa o imprevista scatenano a livello di manager, di consumatori, di politici, di pubblici amministratori, di ogni categoria di interlocutori interni ed esterni dell'organizzazione coinvolta.
Queste paure sono differenti fra di loro, talvolta contrastanti. Se consideriamo, per esempio, la presenza in un prodotto alimentare di residui di origine chimica o di una contaminazione batteriologica, le paure dei consumatori sono completamente diverse da quelle dei diri­genti e da quelle delle autorità. Analogamente sono diverse le paure dei dirigenti di una agenzia pubblica da quelle dei cittadini durante una emergenza. Ma la gestione della crisi impone, oltre che la ge­stione operativa e "tecnica" dell'evento scatenante, di affrontare le paure suscitate dalla crisi e di ricondurle in un ambito in cui non fini­scano con generare conseguenze ancora maggiori dell'evento stesso.
Le paure che la situazione di crisi genera sono però diverse e diversificate: il dirigente teme la perdita di quota di mercato, il con­sumatore teme l'intossicazione, il funzionario pubblico teme di essere accusato di scarsa vigilanza, il cliente teme che il prodotto resti sullo scaffale, il dipendente teme la perdita del posto di lavoro, il giornalista teme di essere battuto dalla concorrenza nel raccontare con comple­tezza di particolari e tempestività la storia. Non esiste un'unica paura da affrontare, ma una varietà di paure contrastanti talvolta.
Com'è possibile affrontarle e gestirle tutte? Quale strategia può essere efficace? Chi si trova di fronte a queste situazioni corre il ri­schio di essere paralizzato nell'azione dalla sua stessa paura di non riuscire a confrontarsi efficacemente con questa pluralità di timori e con le difficoltà della situazione stessa. E' necessario che venga appli­cato un Triage delle paure originate dalla situazione imprevista.
Triage è una parola terribile: descrive la drammatica scelta ef­fettuata dai medici di un pronto soccorso o di un ospedale di guerra su quali feriti tentare di salvare e quali lasciare morire, quando l'afflusso è tale da impedire di trattare tutti in modo adeguato. Analogamente una situazione eccezionale di crisi impone un triage delle paure: sele­zionare quali paure devono essere affrontate, quali interlocutori de­vono essere rassicurati, quali paure devono essere per il momento ignorate, quali interlocutori non devono essere riassicurati. In questo modo è possibile concentrare gli sforzi là dove è determinante contra­stare la reazione emotiva, non disperdere le energie su troppi fronti, non vanificare le possibilità di successo dalle esigenze di mediazione e di compromesso. Se c'è una situazione in cui il compromesso spesso non è perseguibile, quella è la crisi.
Risulta immediatamente evidente che questa cernita delle rea­zioni emotive da considerare non è banale né facile: deve innanzitutto essere operata all'interno dello stesso nucleo operativo cui attiene la gestione della crisi. Sono proprio le paure personali dei vertici di un'organizzazione colpita da una crisi, quelle che inducono l'organizzazione a gestire in modo inadeguato questa situazione, tal­volta ad abdicare dalla gestione cedendo all'immobilismo. 3. Storie di coraggio e di paure
Se guardiamo ad alcune vicende passate, per esempio il caso dell'avvelenamento doloso del Tylenol[1] negli USA o dello Josacine[2] in Francia, riscontriamo come le agenzie pubbliche coinvolte nel caso, FBI e FDA nel primo, e AFSSaPS (Agence Française de Sécurité Sa­nitaire des Produits de Santé) nel secondo, spingevano le aziende coinvolte a non richiamare pubblicamente il prodotto, a gestire in sor­dina il fatto. La paura delle agenzie pubbliche era il panico che la pubblicità su questi fatti avrebbe potuto generare. In entrambi i casi le aziende coinvolte hanno preferito contravvenire alle richieste prove­nienti da parte istituzionale e percorrere una strada che le ha esposte ad una altissima visibilità in termini di copertura mediatica e ad una valanga di richieste di informazione da parte dei consumatori. I con­sumatori, per contro, percepirono chiaramente che le aziende coin­volte, prima ancora che fosse acclarata l'origine dell'avvelenamento, avevano messo in atto le misure necessarie a prevenire che altri con­sumatori potessero essere colpiti in altre zone del paese. La loro con­dotta venne premiata con un recupero totale della quota di mercato.
La vicenda della BSE, che a più riprese ha sconvolto il settore agroalimentare[3] ha mostrato come la paura, negli ambienti governa­tivi, di ripercussioni economiche sul settore agroalimentare ha com­portato una gestione da parte istituzionale del problema che ha gene­rato un crollo di fiducia nei confronti delle autorità sanitarie e del mercato della carne. Già nel 1988, infatti, in un rapporto del sotto­segretario del MAFF Animal Health Group si segnalava:
[...] we do not know whether it can be passed to humans... There is no evi­dence that people can be infected, but we cannot say there is no risk... we have to face up the possibility that the disease could cross another species gap. 
Ciò nonostante il 9 giugno del 1990, il Ministro Britannico dell'Agricoltura, John Grummer, dichiarava esistere "[&] clear scien­tific evidence that the British beef is perfectly safe", facendosi ritrarre mentre mangiava un hamburger con la figlia. Analogamente il 27 no­vembre del 2000 in Italia, quando l'avvio di uno screening della BSE in Francia riportava il problema in evidenza, il ministro della sanità Umberto Veronesi dichiarava: "Non c'e' rischio sui nostri capi bovini: le carni italiane sono assolutamente sicure". Il 13 gennaio dell'anno successivo, la prima mucca italiana risultava positiva ai test.
La paura della reazione del pubblico ha in più occasioni indotto le autorità governative a non affrontare correttamente situazioni di emergenza fino a causare reazioni ben più devastanti da parte di un'opinione pubblica che aveva perso completamente la fiducia nei confronti delle autorità. Analogamente il management di molte aziende coinvolte in situazioni di crisi si è lasciato condizionare, dal timore delle paure' della distribuzione, dei mercati finanziari, delle autorità di controllo, adottando posizioni equivoche, mentendo, sotto­stimando l'impatto a lungo termine di un problema, perdendo credibi­lità, fiducia dei propri interlocutori, e andando in contro a risultati di­sastrosi. Spesso la paura del procedimento legale che avrebbe inesora­bilmente seguito il fatto ha indotto l'azienda a comunicare in modo inadeguato, condizionata dalla paura del legale di anticipare al pub­blico accusatore le proprie strategie difensive, con il risultato di venire condannata dal tribunale dell'opinione pubblica anni prima di essere assolta in quello giudiziario, quando ormai i danni erano irreversibili.
Non è possibile impedire che riverifichino situazioni impreviste o improvvise: per quanto tutti gli esperti sottolineino che le sudden crisis, le crisi improvvise, siano una esigua minoranza rispetto alle smoldering crisis, le crisi striscianti, questa è una osservazione facile a posteriori. La realtà è che, come per le profezie di Nostradamus, siamo in grado di riconoscere le crisi striscianti come tali solo dopo che si sono manifestate nella loro completa virulenza. Prima, i segnali pre­monitori vengono sottovalutati o il timore di un incremento dei costi, di critiche, di percezioni negative del pubblico, spingono i responsa­bili verso un colpevole ottimismo che il problema non verrà fuori, che sarà possibile attuare uno spinning e distogliere l'opinione pubblica da più severe considerazioni.
La storia ci ha mostrato come a partire dal 12 settembre del 2001 sia stato possibile effettuare analisi che avrebbero consentito di profetizzare l'attacco alle torri gemelle del giorno prima, analisi che sono state effettuate rigorosamente a posteriori. Molte sono le situa­zioni di emergenza pubblica o di crisi aziendale che pragmaticamente non possono essere prevenute, perché la prevenzione non può che es­sere attuata sulla base di priorità derivanti dalla stima di probabilità di accadimento, ma una "bassissima probabilità" è cosa ben diversa dall'impossibilità.
E' però possibile prevenire, almeno parzialmente l'insorgere delle paure che queste situazioni scatenano. Vi è evidenza empirica che i timori sono minori quando vi è la percezione di una concordanza di valori fra il pubblico e chi gestisce l'emergenza. Le organizzazioni che vogliono prevenire, nel limite del possibile, le possibili crisi de­vono quindi identificare, adottare e divulgare quei valori la cui condi­visione con i propri interlocutori chiave, come per il "credo" di Johnson & Johnson[4] in occasione dell'avvelenamento del Tylenol nel 1982, ha la capacità di ridurne la preoccupazione all'insorgere di emergenze.
La paura è alimentata dalla carenza di fiducia, mentre quando vi è fiducia, anche in situazioni drammatiche, i timori sono contenuti. Le organizzazioni che sanno costruire una relazione basata con i propri interlocutori sulla percezione di valori base condivisi possono contare su un atteggiamento iniziale di fiducia e sull'allineamento dei propri interlocutori alla loro posizione. Devono poi mostrare con i propri comportamenti che tale fiducia è giustificata e che questi valori non sono una semplice enunciazione, ma indirizzano realmente l'azione dell'organizzazione. Le imprese che, invece hanno fatto percepire in tempi ordinari come unico o preminente valore l'efficienza economica delle proprie operazioni dovranno confrontarsi con la diffidenza dei propri interlocutori, alimentata dal sospetto che anche in occasione della crisi privilegeranno il proprio tornaconto, a scapito se necessario di quello di clienti, fornitori, partner, istituzioni.
Non è sufficiente quindi che le relazioni fra l'organizzazione e i suoi pubblici sia improntata a mutui interessi i benefici dell'indotto per intenderci ma è necessario che l'organizzazione costruisca la propria reputazione e le proprie relazioni sulla base dei valori portanti della società in cui opera. Parliamo di organizzazione, non di impresa, in quanto questo assunto vale parimenti per una istituzione pubblica, una NGO, una entità senza fini di lucro.
La paura, alimentata dalla mancanza di fiducia, può generare reazioni organiche, che finiscono con creare contesti ingestibili. Nel 1999 la Coca Cola venne travolta in Belgio da un susseguirsi di casi di intossicazione che in un crescendo mediatico, in un paese già scosso dallo scandalo dei polli alla diossina, portarono al ritiro dei prodotti in Belgio e Francia e l'azienda a confrontarsi con una crisi di fiducia su scala globale. Successivamente emerse che i malori che coinvolsero a più riprese più di 200 persone non erano attribuibili ad una intossica­zione, ma ad una forma di MSI, Mass Sociogenic Illness, cioè alla ma­nifestazione di sintomi generati dalla somatizzazione da parte di per­sone che condividevano le preoccupazioni in materia di sicurezza dei prodotti alimentari (Nemery B., Fischler B., Boogaerts M., Lison D. 1999: 77). In un Belgio, sensibilizzato dal precedente scandalo, episo­dici fenomeni di cattivo odore o sapore, ascrivibile probabilmente alla qualità della CO2 o ad un fungicida utilizzato sui bancali di lattine, an­che in assenza di intossicazione generarono una genuina sintomatolo­gia che portava al ricovero dei colpiti. 4. Vincere la "paura delle paure"
La paura non deve, poi, essere considerata come una reazione nega­tiva, si tratta di uno stimolo positivo che l'organismo sviluppa per fa­cilitare la risposta ad una situazione di pericolo: è alla paura, non alla sua assenza che devono la vita molte persone che svolgono attività pe­ricolose, quali vigili del fuoco, agenti di polizia, militari, artificieri. Non è la paura che deve essere combattuta quanto il suo evolvere a panico o in una pressione emotiva paralizzante. Il panico non è la rea­zione più comune in situazioni di pericolo, anzi sorprendentemente la maggioranza delle persone tende in situazioni di reale pericolo a se­guire le indicazioni che gli vengono da chi mostra di esercitare un controllo sulla situazione. Il panico è generato dalla disperazione di essere abbandonati a sé stessi e alla percezione di non poter contare su chi dovrebbe esercitare il controllo sulla situazione. La paura di per sé è una reazione legittima di fronte ad un pericolo percepito e facilita la risposta. Nei momenti drammatici, non sempre quindi la rassicura­zione deve essere l'obiettivo dell'organizzazione. Più correttamente si tratta di dimensionare correttamente i timori del pubblico e di generare il livello di paura che facilita l'azione, piuttosto che un atteggiamento passivo o di rassegnazione.
Talvolta più efficace è il corretto dimensionamento dei timori, il generare cioè un livello di attenzione che consenta di prevenire se possibile danni maggiori. Il tema è di particolare attualità per quanto riguarda le emergenze pubbliche, dove molto spesso i pubblici uffi­ciali appaiono troppo preoccupati di rassicurare il pubblico fino a sca­dere nella menzogna o nella minimizzazione del problema. Ancora una volta la "paura della paura" appare essere il problema maggiore (Sandman e Lanard 2003).
Il problema del  terrorismo è l'esempio più recente di situazioni in cui più che rassicurare a tutti i costi l'opinione pubblica, è preferi­bile generare uno stato di allerta sociale che favorisca sia la preven­zione degli atti terroristici che il contenimento dei danni, quando l'attacco terrorista riesce a passare le maglie della rete di protezione.Il terrorismo infatti, più che a infliggere danni materiali e morti, mira a infliggere danni morali, sconcertando il contesto sociale dell'avversario, secondo la definizione di Clausewitz secondo cui l'obiettivo della guerra è uccidere il coraggio del nemico più che i suoi soldati.
Tutte le società occidentali, e non solo quelle occidentali, si tro­vano infatti a fronteggiare una emergenza terrorismo, che coniuga ef­feratezza nell'atto terroristico con una nuova capacità di gestione me­diatica. Non vi è più solo l'attentato ma anche la contemporanea atti­vazione di comunicazioni mirate a potenziare l'effetto dell'atto, come ha potuto constatare il governo spagnolo.
Dopo l'11 settembre 2001 le autorità statunitensi hanno im­prontato la propria comunicazione sul tema del pericolo terrorismo, infatti, più che sulla rassicurazione dell'opinione pubblica, su due obiettivi: prepararla ad assorbire un nuovo grave colpo e diffondere le indicazioni comportamentali atte a favorire l'azione preventiva delle autorità e a ridurre i danni in caso di attentato. Può talvolta apparire una paranoia la quantità di indicazioni su come comportarsi in caso di attacco bioterroristico, bombe "sporche" e similari, che vengono dif­fuse dalle varie agenzie governative.
In realtà risponde ad una lucida strategia: per il terrorista risulta più difficile agire in un contesto sociale vigile, in cui vi è attenzione alle anomalie che possono far insorgere sospetti e minore è il risultato, sia in termini di vittime che di impatto emotivo sull'opinione pub­blica, che può conseguire se riesce a mettere a segno il suo disegno.E' auspicabile che questa consapevolezza si diffonda a livello di pubblici ufficiali nell'affrontare quelle situazioni che possono gene­rare allarme nell'opinione pubblica, si tratti di eventi naturali, nuove epidemie, rischi ambientali, improntando la comunicazione pubblica ad una corretta informazione piuttosto che ad una rassicurazione a tutti i costi.Non c'è in gioco solo la gestione della situazione specifica, c'è in gioco la credibilità delle istituzioni e il rapporto fra cittadino e or­gani dello stato: quale istituzione può pretendere di guadagnarsi la fi­ducia dei suoi cittadini se essa è la prima a mostrare di non fidarsi di loro? 5. Contro la paura, l'azione 
Analogamente a quanto sottolineato per quanto riguarda le emergenze pubbliche, quando guardiamo a crisi aziendali, la questione per chi deve gestirle è di determinare quale è l'appropriato livello di timore verso il rischio (sia esso la BSE, la SARS o la presenza di frammenti di vetro in un prodotto) per adattare le aspettative del pubblico. Non bisogna aver paura delle paure del pubblico, solo controllarle, indiriz­zarle e, soprattutto, rispettarle. Le paure che inevitabilmente una situa­zione critica originerà nelle varie categorie di interlocutori chiave dell'organizzazione la travolgeranno se essa: a) le deriderà cercando di sminuirle; b) assumerà una posizione equivoca nel tentativo di bar­camenarsi con timori contrastanti; c) sarà percepita incapace di fron­teggiare la situazione o attenta a perseguire i suoi interessi particolari a scapito di quelli delle altre parti coinvolte.
Per contro, se l'organizzazione saprà individuare e curarsi delle preoccupazioni realmente rilevanti, non facendosi paralizzare dalle proprie; si mostrerà coerente con i propri valori basilari; saprà mo­strare di volere e sapere affrontare la situazione assumendosi le pro­prie responsabilità, piuttosto che affrettandosi a negare colpe  saprà comunicare con onestà e chiarezza la propria posizione e soprattutto la propria azione per fronteggiare la situazione, allora queste paure sa­ranno contenute e progressivamente risolte.
La conferma empirica di questo viene dall'analisi condotta sull'andamento dopo un disastro del valore di impresa di gruppi quo­tati (Knight e Pretty 2000). Sulla base dell'analisi dell'andamento del titolo per un anno di contrattazioni dopo lo scoppio di una crisi, le im­prese appaiono dividersi in due gruppi: uno che recupera il valore mediamente entro un mese dall'evento e ad un anno registra un im­patto positivo del +5% e un gruppo che ad un anno dall'evento regi­stra un impatto negativo mediamente del 15%. La capacità manife­stata dal management nell'affrontare la crisi si rivela come premiante anche da parte dei mercati finanziari in termini di accresciuto valore dell'impresa.Vale la pena di citare il Presidente Americano Franklin Delano Roosevelt che nel 1933, a proposito della Grande Depressione, avver­tiva gli Americani che 
[...] the only thing we have to fear is fear itself nameless, unreasoning, unjustified terror which paralyzes needed efforts to convert retreat into advance.
Una crisi genera comprensibilmente paure: genera timori fra gli in­terlocutori chiave dell'organizzazione, siano essi dipendenti, clienti, consumatori, fornitori, genera contemporaneamente paure fra i diri­genti dell'organizzazione. Se questa si lascia paralizzare dalle paure dei propri dirigenti, risponde lentamente e in modo improprio, allora le paure degli interlocutori avranno il sopravvento, si innescherà una spirale devastante di eventi e, alla fine, le peggiori paure dei dirigenti saranno superate dalla realtà degli eventi. Se l'organizzazione saprà accantonare le paure, spesso inespresse, dei propri quadri direttivi e affrontare la situazione potrà uscire spesso più forte dalla prova, con relazioni più salde, con maggiore credibilità. Avrà colto l'opportunità e schivato i pericoli.
Riferimenti bibliografici 
Knight R.F. & Pretty D. 2000. Brand Risk Management in a Value Context. Oxford: Templeton Briefing.Nemery B., Fischler B., Boogaerts M., Lison D. 1999. Dioxins, Coca-Cola, and Mass Sociogenic Illness in Belgium. Lancet, 354: pp.77Sandman P.M. & Lanard J. 2003. Fear of Fear: The Role of Fear in Preparedness ∧ Why It Terrifies Officials. www.psandman.com (7 settembre 2003) .


NOTE:
[1] Nel settembre del 1982, nell'area di Chicago, 7 persone persero la vita dopo aver assunto compresse di Tylenol Extra Strength, un analgesico della McNeil Consumer Products Co. Società del gruppo Johnson & Johnson, avvelenate con cianuro.
[2]  Nel giugno del 1994 in un villaggio della Normandia una bambina di 9 anni morì dopo l'assunzione di un cucchiaio di sciroppo per la tosse della Rhône-Poluenc, risultato poi avvelenato con cianuro.
[3]  La sindrome da encefalopatia spongiforme bovina venne individuata in Gran Bretagna nel 1986, nel 1996 venne riconosciuta la possibilità che passasse all'uomo, nel 2000 venne riconosciuto che il problema riguardava anche gli animali del resto d'Europa.
[4]  Il "credo", da sempre esposto nelle bacheche delle società del gruppo recitava: "le nostre responsabilità sono prima di tutto verso i consumatori, poi verso i nostri dipendenti, poi nei confronti delle comunità che serviamo e, infine, verso i nostri azionisti".
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