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Rodriguez: la nuova identità delle Rp

11/01/2012

I cambiamenti radicali che interessano le modalità di relazione e comunicazione pongono una nuova grande sfida alla professione che è chiamata a ridefinire la propria identità. “Quello che siamo va definito partendo da quello che facciamo”. Lo sostiene _Mario Rodriguez_ in questa riflessione sul mestiere del relatore pubblico.

Se una delle acquisizioni faticose degli ultimi anni è che il significato di una frase, di un messaggio o di un discorso è frutto di una negoziazione di significato tra emittente e ricevente dobbiamo riconoscere anche che quello che facciamo, quello che siamo professionalmente, non è tanto quello che noi crediamo di essere o quello che raccontiamo di fare, ma quello per cui ci pagano, quello che i nostri committenti sperano facciamo per loro. Si tratti di committenti “interni” alla stessa organizzazione o di acquirenti di servizi “esterni”, poco cambia.
Allora quello che siamo (professionalmente, ma potrebbe valere anche in generale) va definito partendo da quello che facciamo, da quello che ci chiedono di fare i nostri clienti interni o esterni. E quello che ci chiedono è fortemente condizionato da come ci vedono, da quello che pensano che noi siamo, dalla nostra immagine, dalla percezione che hanno del nostro lavoro.
Ripartiamo quindi da come il nostro lavoro si manifesta nei contenuti delle percezioni e della coscienza delle persone che compongono la nostra comunità di intenti, affrontiamo i processi del ragionamento pratico, le manifestazioni ricorrenti e tangibili del senso comune, i metodi che gli individui elaborano e mettono in atto per realizzare i compiti più minuti e banali, anche se svolgono un lavoro specifico.
Dobbiamo definire meglio la nostra identità, come ci facciamo riconoscere, come ci distinguiamo, appunto come ci facciamo identificare nella grande folla di coloro che offrono competenze nel campo della comunicazione.
Il grande cambiamento in atto negli strumenti e nei concetti a disposizione rende evidente che bisogna saper definire le cose in maniera nuova, diversa dal passato. Definire un nuovo vocabolario, sviluppare un nuovo modo di raccontare quello che si vive e si fa.
Anche nel nostro ambito professionale si riflette la crisi della nostra società che è parte di una crisi molto più ampia. Crisi nella sua accezione originaria di momento di scelta, di bivio, dilemma.
Il decennio che si chiude o meglio quello che si apre ci pone ancora una volta il compito di riuscire a rendere più chiari e distinguibili i contorni delle competenze professionali che offriamo alla società nel suo complesso, aziende, organizzazioni politiche, istituzioni. Appunto la nostra identità. Senza pensare di poter definire la nostra immagine perché quella si forma nelle percezioni degli altri. E gli altri sono soggetti attivi non passivi.
E dovremo tener testa ad un paradosso: quello che trent’anni fa era un punto di orgoglio oggi si potrebbe trasformare in una cosa di cui vergognarsi.
Tanti anni fa potevamo dire che quello che ci distingueva dalle altre professionalità della comunicazione era che noi mettevamo l’accento sulla “relazione personale” come medium. Consideravamo possibile ricondurre a un modello unitario l’analisi dell’agire comunicativo delle diverse forme di organizzazione assimilandolo alle persone. Potevamo vantarci (assieme agli innovatori del direct marketing se non prima e a maggior titolo) di avere un approccio che dava valore al ricevente, potevamo ed eravamo con orgoglio i pochi, se non i primi a mettere l’accento sull’ascolto, su un approccio circolare, culturale, alla comunicazione, a considerare i pubblici (allora non si usava ancora il concetto di stakeholder) e non i clienti. Timidamente chiedevamo di non usare il termine target perché chi riceve il messaggio non è un bersaglio passivo ma un soggetto attivo, contribuisce alla creazione del significato. E altrettanto timidamente sostenevamo che l’equazione di Shannon e Weaver era un fatto meccanico insufficiente per spiegare e interpretare un fenomeno umano, sociale, complesso come la creazione di significati se non condivisi almeno utilizzabili per perseguire obiettivi pratici comuni.
Quasi quindici anni dopo la pubblicazione di “addio al marketing” (Gerken), e tre anni dopo Societing di Fabris (a proposito un pensiero alla sua assenza è doveroso) possiamo dire che questi concetti si stanno affermando nella comunità professionale e disciplinare.
Ma questo come al solito ci pone un’altra sfida. Oggi quest’attenzione alla relazione personale come medium va precisata, direi quasi pulita dai fraintendimenti e dalle incrostazioni che le si sono appiccicate addosso e che come i denti di cane sullo scafo delle barche ne rallentano la navigazione.
Una società che non premia il merito, preferisce sempre il patteggiamento (non trasparente) alla competizione leale, che non riconosce il ruolo delle regole, insomma, che ha esaltato la funzione di un signore come Bisignani (nelle relazioni tra ministri e non solo tra interessi opachi e luoghi della decisione), una società di questo tipo colloca la “relazione personale” in un contesto ambiguo che danneggia la nostra professionalità.
Se vogliamo rivendicare con orgoglio – con la consapevolezza che l’affermazione dei social network ci dà ragione –il nostro specialismo nell’ambito delle relazioni tra persone, abbiamo davanti non una ma molte sfide: culturali, sindacali (la consapevolezza professionale) e politiche (le regole del gioco della nostra democrazia diventata “reale”).
Credo che questo terreno della consapevolezza professionale nel tempo che si vive debba essere il campo di affermazione della nostra associazione lavorando e studiando con chi ci segue piuttosto che perseguendo una visibilità del marchio fine a se stessa che non garantisce né crescita quantitativa né qualitativa.
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