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Rp, un ruolo chiave per una professione in continua crescita

01/09/2010

Il mestiere del relatore pubblico affonda le sue radici in un lontano passato che ormai ha poco a che fare con la professione di oggi. _Ferdinando Fasce_ ne ripercorre brevemente la storia, sulla scorta del primo convegno internazionale sulla storia delle relazioni pubbliche, e mostra come le Rp siano diventate un’attività-chiave per qualsiasi organizzazione.

di Ferdinando Fasce
Secondo il New York Times di qualche giorno fa il disastro ecologico che da mesi attanaglia le coste del Golfo del Messico è anche un disastro comunicativo, il frutto di una politica di public relations (PR) aziendale BP orientata a minimizzare i fatti o a rovesciare la responsabilità sulle imprese che lavoravano a contratto per il colosso britannico. “E’ stato uno dei peggiori approcci alle PR che io abbia visto nei miei 56 anni di carriera”, dice l’esperto di comunicazione Howard J. Rubinstein, e aggiunge: “Quelli di BP pensavano sostanzialmente di poter cavalcare la catastrofe con un po’ di fumo comunicativo. Non funziona così”. Del resto, secondo la recente analisi dei vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli (Attacco a Ratzinger, Piemme Editore, 2010), uno dei principali problemi del pontificato di Benedetto XVI è un difetto di comunicazione, ovvero l’assenza di “una squadra che sostiene il papa adeguatamente, che previene l’accadere di certi problemi, che riflette su come rispondere in modo efficace”.
Le PR o relazioni pubbliche, cioè la “gestione consapevole dei sistemi di relazione con tutti coloro che possono aiutare o ostacolare il perseguimento degli obiettivi perseguiti” da una qualsiasi organizzazione, privata o pubblica, sono dunque, nell’attuale società dell’informazione e dei media, un’attività-chiave. Ma come è nata e da dove viene questa branca professionale nella quale, come in tutte le professioni, c’è posto per i venditori di fumo e per le persone serie? Se lo sono chiesti, sotto la guida di Tom Watson della Bournemouth University (nel Dorset), una sessantina di studiosi provenienti da tutto il mondo (inclusi, per l’Italia, il sottoscritto, Elisabetta Bini e il veterano degli studi in materia Toni Muzi Falconi) per il primo convegno internazionale di storia delle PR
Prima di tutto, dice Karen Miller Russell, della University of Georgia, una delle maggiori esperte del settore, occorre “riconoscere l’imbarazzante”, cioè non dimenticare che la storia delle PR annovera al proprio interno personaggi tutt’altro che irreprensibili come il celebre Phineas Taylor Barnum, inventore dell’omonimo circo, maestro dell’intrattenimento e della manipolazione popolare vis a vis, pioniere della promozione commerciale, rutilante e cialtronesca, delle origini; ma anche, per due anni (1875-76), sindaco della sua città, Bridgeport, nel Connecticut. Né si deve dimenticare che è una storia nella quale le donne, che oggi costituiscono una parte significativa dei PR, sono state a lungo confinate in ruoli secondari. Lo prova, ha mostrato Meg Lamme, il caso della coppia Edward Bernays-Doris Fleischamn: lui, nipote di Freud e celebre guru del settore, inventore degli “eventi”, come la famosa “parata” della domenica di Pasqua del 1929 di giovani donne per la Quinta Avenue, a New York, con una sigaretta in bocca, parata progettata per “vendere” l’immagine dell’American Tabacco Company; lei, altrettanto e forse più acuta e intraprendente, collaboratrice indispensabile del marito, ma condannata, dalle convenzioni di genere dell’epoca, a restare nell’ombra. Neppure si deve dimenticare, però, che innovative tecniche comunicative da PR (uso dei giornali, invenzione di slogan, eventi clamorosi quali sit in dinanzi alla Casa Bianca) sono state usate da movimenti come quello suffragista e femminile del primo ventennio del Novecento. O che i relatori pubblici hanno gradualmente contribuito al processo di democraticizzazione del dibattito pubblico in paesi come la Germania post-nazista.
E in Italia? Da noi l’espressione “PR” è arrivata con le truppe statunitensi durante la seconda guerra mondiale. La professione ha poi continuato a parlare americano attraverso enti di propaganda e diplomazia culturale come l’USIS o i primi uffici PR come quello della Esso Italiana, costituito nel 1948, per legittimare l’impresa presso l’opinione pubblica, garantirla contro possibili nazionalizzazioni da parte del governo e aiutarla nella “battaglia di parole”, oltre che di risorse e strategie, contro Enrico Mattei e l’AGIP. Ma ben presto anche imprese italiane come l’ENI di Mattei, la Cornigliano e poi Italsider di Gian Lupo Osti e l’Olivetti di Adriano hanno fatto ampio ricorso alla comunicazione non strettamente pubblicitaria per migliorare il loro rapporto con i dipendenti e con l’opinione pubblica, contribuendo al tempo stesso alla promozione della cultura industriale nel nostro paese e alla crescita della sensibilità collettiva mediante artisti e comunicatori del calibro di Leonardo Sinisgalli, Kurt Blum, Claudio Bertieri, Umberto Eco, Flavio Costantini, Attilio e Bernardo Bertolucci. Sarà bene studiare con attenzione questa storia per capire come da allora, dagli anni della Ricostruzione e del “miracolo economico”, siamo arrivati a una sfera pubblica che pare dominata dalle veline, dai tronisti e dai cosiddetti PR formato Billionaire. Ma sarà bene anche esaminare senza pregiudizi l’azione dei tanti professionisti seri di comunicazione, riuniti nella Federazione relazioni pubbliche italiana (Ferpi), che quest’anno compie quarant’anni, e vedere se e come il loro operato contribuisce a far sì che le innumerevoli anime di una società complessa e articolata, che tende spesso purtroppo a privilegiare chi alza la voce o si compra spazi e modalità di informazione prevaricante, possano farsi sentire e contare in un effettivo pluralismo comunicativo.
Tratto da Il Secolo XIX
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