Luisa Flora
Da quando, nel 2011, IBM inventa e divulga la buona novella della “città intelligente” molto è cambiato. Per capire cosa si cela dietro questa definizione, Luisa Flora ripercorre una narrazione che si è evoluta nel tempo e che, soprattutto, ci riguarda più da vicino di quanto pensiamo.
L’articolo è tratto da “Smart city. Come dare un lieto fine alla narrazione” in AAVV, La città immateriale, a cura di Corrado Poli, Anteferma Edizioni, 2021
Chi oggi si occupa di comunicazione a supporto degli Enti locali si imbatte sempre più spesso nel termine smart city, ormai così diffuso che alcuni teorici nei campi dell’architettura e dell’urbanistica lo stanno già sostituendo con altri termini (ad esempio Carlo Ratti parla di “Senseable city”).
Capire cosa si cela dietro a queste poche lettere vuol dire ripercorrere una narrazione che ormai ha 10 anni di vita, che si è evoluta nel tempo e che, soprattutto, ci riguarda più da vicino di quanto pensiamo.
La nostra storia inizia nel 2011, quando IBM inventa e divulga la buona novella della “città intelligente”: le città sono insiemi di infrastrutture e di servizi di gestione e sociali, insiemi che possono funzionare bene se sono monitorati e regolati a livello centrale tramite sensori, contatori, elettrodomestici, dispositivi personali che convogliano i dati verso una piattaforma centralizzata, grazie alla quale essi sono visualizzati, analizzati, ottimizzati.
Successivamente, alla smart city viene attribuita l’ambizione di migliorare la vita dei city user - non solo i cittadini e i residenti ma tutti coloro che vivono la città per lavoro, svago o altre ragioni. Dal punto di vista pratico, questa trasformazione del concetto si traduce nel fatto che le Amministrazioni locali, dopo aver implementato i sistemi di rilevamento, analisi e integrazione delle informazioni, permettono ai cittadini di accedere a questi dati attraverso dei servizi – in genere app - che consentono di vivere in real time la città (o meglio, una sua dimensione specifica: la mobilità, la qualità dell’aria, etc.).
Oggi la narrazione sulle smart city collega tre gruppi di concetti, con un vero e proprio azzardo logico: gli strumenti tecnologici (interconnessione, e-gov, ICT, accesso ai dati, mobilità smart) sono associati a obiettivi di tipo economico (competitività, innovazione, business creativo, imprenditoria) capaci di generare risultati di tipo sociale - sicurezza, salute, smart living, fermento culturale, sostenibilità ambientale, felicità.
Da analfabeti digitali a cittadini del futuro
Difficile pensare che il primo gruppo di strumenti possa condurre agli obiettivi del terzo gruppo senza un intervento attivo della componente umana della città: alla città intelligente deve assolutamente affiancarsi una smart citizenship - e siamo ancora lontani da questo risultato.
Non è solo il fatto che difficilmente il maggior uso delle tecnologie durante la pandemia può aver risolto l’analfabetismo digitale degli Italiani, che secondo Eurostat riguardava nel 2019 quasi 4 cittadini su 10, mentre meno di 3 persone su 10 avevano competenze di base (situazione confermata nel Rapporto annuale Istat 2020 e nelle analisi OCSE).
È anche che non sembra ancora emergere, a livello di società civile, la consapevolezza che la localizzazione dei dispositivi mobili dei city user e la gestione della rete consentono di raccogliere una molteplicità di informazioni potenzialmente interessanti (permanenza media in un luogo, durata delle chiamate, siti web visitati, comportamenti di acquisto, applicazioni preferite, età, genere, nazione di origine, tipo di dispositivo).
Sicuramente i grandi attori privati della Rete (americani come Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft o cinesi come Baidu, Alibaba, Tencent) saprebbero mettere a profitto questo patrimonio informativo; ma noi cittadini, che siamo la fonte inesauribile di questi dati, saremmo capaci di controllare che la proprietà di tali big data sia delle nostre città e che essi siano usati per migliorare la vivibilità dell’ambiente urbano?
Questa presa di coscienza è il primo passo da compiere per passare dalla smart city come definita da IBM a quella oggi decantata, che è valutata in termini di sviluppo sociale, culturale e urbano.
Il secondo passo è raggiungere la consapevolezza collettiva che le soluzioni tecnologiche non sono neutrali ma espressione di variabili come il contesto, l’età, la posizione geografica, la società, i rapporti di potere in cui vive chi le programma, così come delle sue esperienze individuali.
Consapevolezza tanto più necessaria quanto più appare evidente che, in base all'evoluzione delle innovazioni tecnologiche e alla pervasività dei dispositivi a nostra disposizione, il futuro della democrazia, soprattutto a livello locale, passerà attraverso dei processi di confronto digitale fra il settore pubblico e i cittadini. Siamo ancora lontani da un uso diffuso di questi strumenti: ma la velocità delle rivoluzioni a cui ci ha abituato la Rete deve metterci in guardia dal pensare che la transizione avverrà per gradi o lentamente.
È chiaro quindi che nel prossimo futuro le città, per essere veramente intelligenti, dovranno sostenere le iniziative di cooperazione educativa e di formazione diffusa volte a favorire l’alfabetizzazione digitale, l’accesso alle risorse informative e l’uso di tecnologie abilitanti per rendere i cittadini sempre più digitali e “smart”.
A quel punto, quando parleremo di città intelligente, penseremo a una città in cui non solo l’ecosistema urbano sarà sempre più monitorato in tutti i suoi aspetti (produzione e raccolta di rifiuti, qualità dell’aria, sicurezza, traffico, condizione degli edifici e delle infrastrutture) ma in cui le interazioni sociali (gruppi di lavoro, relazioni dei servizi sociali, partecipazione civica) potranno moltiplicarsi e raffinarsi. Le vere città intelligenti saranno quelle che esploreranno nuove strategie partecipative efficaci, utilizzando gli strumenti digitali per beneficiare del loro capitale umano.