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Social Media, arbitri della reputazione

17/04/2012

Prima il mercato, poi la politica, ma ora anche i media cedono lo scettro di giudici della reputazione. La rete e i social network non perdonano, come spiega _Antonio Bettanini_ nella sua approfondita analisi.

di Antonio Bettanini
1. Cluetrain Manifesto. La reputazione spazza l’immagine e l’identità. La considerazione o la stima pubblica di cui godiamo si chiama reputazione. Una parola in principio neutra che definisce la nostra credibilità all’interno di un gruppo sociale ma che rappresenta anche un rischio, reputazionale appunto, per un’impresa.
“It’s not about the money” è infatti la battuta di Wall Street 2 che Stefano Bartezzaghi cita ricordandoci che le poste reali del gioco finanziario sono affidabilità, credibilità, credito. In una parola proprio quella reputazione su cui vigila Moody’s, un’agenzia già dal nome poco rassicurante perché appunto lunatico.
Il proverbio dice poi che ”un buon nome conserva anche al buio il suo splendore”, ma non insegna come conservarlo, questo buon nome. E, come detto, non è poi così facile e tranquillo nell’epoca della velocità e dei social network. Allora un po’ di storia.
È stato il Cluetrain Manifesto, con le sue 95 tesi, ad affermare che “i mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici”, che “i mercati sono conversazioni”.
E siccome le conversazioni tra esseri umani hanno un suono e una voce umane, le persone che formano questi nuovi mercati, parlando tra di loro in rete, hanno capito che potevano ottenere più informazioni e sostegno parlando appunto tra di loro, piuttosto che chiedendo a chi vende. La conseguenza è ora che il mercato online conosce i prodotti meglio delle aziende e diffonde velocemente in rete la propria opinione.
Se immagine e identità erano informazione, ora reputazione significa riconoscimento reciproco, fiducia e consenso. E mentre il binomio immagine-identità si poteva programmare a tavolino, la reputazione si costruisce con l’ascolto, le azioni e la coerenza. Da qui una rivoluzione degli atteggiamenti che coinvolge le aziende: devono appartenere anche’esse ad una comunità, fondata sulla comunicazione.
E questa comunità è appunto il mercato che creiamo noi, noi impermeabili alla pubblicità, noi che vi ascoltiamo se voi (aziende) ci dite qualcosa, di interessante. Non sarà quindi un caso che nella classifica del Reputation Institute, fondato nel 1997 e presente in 32 Paesi nel mondo, è Google l’azienda che gode della reputazione più elevata.
2. La libera interpretazione. Il tratto visionario e religioso di questa rivoluzione che si ispira alla Riforma e a Lutero (semplificando, l’analogia è con la rinuncia alla mediazione interpretativa dei testi. Dunque la rinuncia ad ogni Ordine dell’interpretazione: pubblicitari, politici professionali, giornalisti) nasce con le tecnologie web che non solo favoriscono l’interazione, ma consentono ora ai navigatori di assumere un ruolo attivo nei processi di comunicazione e di costruzione della conoscenza.
Ognuno può dire la sua su qualsivoglia argomento, avendo anche la possibilità di diventare un concreto punto di riferimento per gli altri utenti. E guardando al fenomeno dalla prospettiva della comunicazione di impresa ora l’utente/consumatore ha tra le mani il potere di giudicare sull’efficienza di un’azienda e spiegare le sue ragioni ad una quantità indefinita di individui, che a loro volta si formeranno una personale immagine mentale sull’azienda in questione.
Un’opportunità. Ma anche un rischio.
2.1 Quanto vale il trust. L’opportunità è ad esempio di chi nel mondo reale potrebbe essere una nullità, ma online è un Re, perché le sue attività nella rete, il tono e la qualità dei contenuti che produce, il ruolo che assume nelle discussioni e nei commenti, hanno accresciuto il suo trust.
E’ diventato quello che nel marketing si definisce: influencer, evangelist, trend setter. E c’è chi ha misurato questa influenza nel passa-parola (si parla di ‘Klout Score’), al punto di finanziarlo.
Accade quindi che la reputazione sia un abilitatore al denaro tanto che c’è chi afferma che nella rete: la tua reputazione diventa più importante del tuo conto in banca.
E il valore della reputazione produce effetti diversi e misurabili per le aziende che investono in questa rivoluzione del mercato. I clienti comprano di più, la forza contrattuale verso fornitori o partner aumenta. Ancora: si realizza una maggiore facilità di accesso a mercati esteri e, se quotata, l’azienda capace di una buona strategia di comunicazione della reputazione, registrerà una minor volatilità del titolo e prestazioni migliori.
Senza dimenticare poi che la reputazione si misura ogni giorno nella capacità di mantenere la faccia davanti a una crisi. La ‘resilience’ (capacità di resistenza agli urti) delle grandi aziende è particolarmente messa alla prova e rappresenta il lato combattente della web reputation.
3. I media che non mediano più. Un capitolo a parte riguarda i media. Il passa-parola del mercato investe anche loro. E da molti lati. Da quello principale – della notizia – perché le tecnologie, specie multimediali, hanno popolato di free-lance i teatri di ogni evento, free-lance che con la rete hanno trovato l’immediata distribuzione dei prodotti. A quello strutturale, il lato della testata e della sua organizzazione, perché social network, blog e giornali on line segnano il crollo, specie in Italia, della rigida impalcatura garante della professionalità, delle gerarchie e del welfare (l’Ordine, il sindacato).
Per concludere con la linea di frontiera dei lettori, sempre più mobile, sempre più indisciplinata e individualista e sempre meno generalista (e però anche così conformista nella povertà di argomentazioni che la struttura narrativa dei new media impone). E sempre più sconosciuta – sembrerebbe – perché ora nemmeno basta più quell’analisi segmentata di mercato che pure il mondo dei media ha sempre rifiutato con superbia (“so io che cosa vuole il lettore!”: parola di direttore).
E non parliamo di auditel , il dinosauro della reputazione, figlio della televisione di Lascia o raddoppia: la famiglia e i vicini, tutti insieme, nel salotto buono (se c’era). I media sono stati i più lenti a muoversi lungo il confine della reputazione.
Postilla: regge ancora – sul fronte della notizia – quel passa-parola istituzionale che fa arrivare ai giornali le intercettazioni telefoniche e gioca una sua partita disperata (perché il risultato è stato la delegittimazione generale) a battere con armi improprie i competitor dello stesso mondo. Sì perché il mondo là fuori è fatto ormai di gente incattivita che non ne vuole più sapere.
2.2 Reputation: non è tutto oro quel che luce. Ma vediamo anche i rischi di questa nuova dinamica. Un qualche sguardo dovremo gettare sui percorsi che conducono alla legittimazione del cosiddetto trend setter ma anche, conseguentemente, sul monitoraggio delle sue attività. Maggiore vigilanza poi dovremmo dedicare ai social network soprattutto perché gli esempi, preoccupanti, non mancano.
Facebook deteneva ancora foto che gli utenti avevano chiesto di cancellare tre anni prima; Anonymous circolava informazioni private di cittadini, mentre Path, social network per la condivisione di foto, memorizzava segretamente nei suoi server i numeri dei telefoni cellulari contattati dai suoi utenti. Per non parlare di Google Buzz che ha reso pubblici i nomi dei contatti email più frequenti dei suoi utenti.
Bisognerebbe dunque rintracciare e punire chi si comporta come Anonymous e dovrebbero comunque essere multate e sanzionate penalmente le aziende che trattano i dati degli utenti in modo negligente. Anche se c’è chi cerca di gestire proattivamente la propria reputazione online con sistemi capaci di sopprimere le informazioni dannose, o almeno di spostarle da pagina 1 a pagina 10 dei risultati di ricerca. Ma sono operazioni costose, riservate soprattutto ai ricchi.
Per alcuni poi gli utenti dovrebbero avere la possibilità di cancellare qualsiasi informazione carichino su servizi online, eliminare le informazioni su se stessi da qualsiasi sito o motore di ricerca: il cosiddetto diritto a essere dimenticati. Ma basta che conoscenti, parenti o partner commerciali navighino anche veloci su notizie per noi compromettenti che il diritto a essere dimenticati certo elimina queste informazioni da internet, ma non dalla loro mente.
2.3 Come difendersi dai danni on line. Da qui la proposta – di Evgeny Morozov – di un sistema di assicurazione obbligatoria per i danni online: che ci consentirebbe o di iniziare una nuova vita o di utilizzare i servizi di una di quelle società specializzate nel migliorare la nostra reputazione online (o farla sparire).
Le somme in gioco non dovrebbero peraltro essere insignificanti. Con il vantaggio di non dover bandire dalla rete l’anonimato o di dovere dare vita ad una autorità censoria per poter applicare il diritto di essere dimenticati.
Le vittime di questa ferite informatiche riceverebbero in questo modo una qualche compensazione, più solida delle vaghe promesse che «non accadrà mai più», cioè una somma di denaro. Infine si renderebbe più democratico l’accesso alla tutela della nostra reputazione, non più solo appannaggio dei ricchi che possono pagare per ottenere questo beneficio.
Ci sono già compagnie di assicurazione che propongono «assicurazioni sulla reputazione» alle aziende loro clienti. Bisogna ora renderle accessibili e utili agli individui superando problemi come quello di misurare o anche definire un danno alla propria reputazione online: quantificando ad esempio il nostro status sociale sul web attraverso l’individuazione di variabili ad hoc.
Morozov mette in guardia anche sul non creare rischi come quello di dare agli utenti un incentivo a pubblicare foto imbarazzanti di se stessi sulle piattaforme Internet per poter poi chiedere un risarcimento. Garantire che soggetti ad alto rischio, che hanno account attivi su ogni piattaforma Internet, non siano discriminati o sottoposti a tariffe esose da parte degli assicuratori potrebbe essere un altro problema (che Morozov suggerisce risolvere se il programma di assicurazione sarà gestito dal governo). Come vedete la materia si fa giuridicamente complessa.
In conclusione. La reputazione è diventata positivamente sinonimo di un incontro e di una reciprocità che a buon diritto possiamo chiamare relazione e comunicazione: tra azienda e consumatore, prima di tutto, oggi, tra media e pubblici in prospettiva. Ma dentro questo cambiamento degli atteggiamenti che ha liberato e libera energie, dentro questa presa della parola del cittadino è indubbio che un problema ci sia.
C’è per chi, azienda, personaggio pubblico o cittadino della repubblica della vita quotidiana, è soggetto al rischio di una ferita continua, anonima e indelebile della propria identità a cui dover rispondere con professionalità e mezzi adeguati.
Questa ferita può essere provocata consapevolmente e conoscere cerchi concentrici sempre più larghi. Velocità e diffusione rendono quindi difficilmente rinviabile la presa in carico del problema anche da altri versanti : quello etico e quello giuridico.
Tratto da Il Comunicatore Italiano
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