Ferpi > News > Social? Meglio digital media

Social? Meglio digital media

17/10/2012

E’ opportuno continuare a parlare di “social media”? O è meglio rendere il termine più neutro con un semplice “digital media”? La questione non è affatto meramente sintattica ma di fondamentale importanza per tutti i professionisti dell’informazione e della comunicazione, come afferma _Toni Muzi Falconi,_ prendendo spunto da alcuni recenti fatti di attualità.

di Toni Muzi Falconi
Provocare, danneggiare, nuocere alle persone, alle organizzazioni e alla società è ogni giorno più facile.
Tra digitale e analogico, in un intreccio opaco e labirintico tra fonti (comunque raramente dichiarate) e i canali più svariati, i professionisti dell’ informazione (giornalisti) e quelli della comunicazione (relatori pubblici), sono – al tempo stesso – vittime (se inconsapevoli) e protagonisti (se pratici del filo di Arianna capace di orientarli in una spirale sempre più perversa) di un fenomeno diffuso che produce conseguenze politiche, sociali ed economiche talvolta comiche, ma più spesso devastanti.
Un paio di esempi recenti:

Un estremista islamofobo americano produce un filmato mediocre e ne carica un trailer su youtube. Per molte settimane non se ne accorge nessuno, fino a quando un estremista islamico egiziano non lo traduce e lo diffonde twittandolo nei Paesi arabi. Abbiamo visto cosa è successo. Gli estremisti di parte opposta si alimentano così l’un l’altro, a spese della serenità e della pace sociale.
Sui giornali italiani viene pubblicato tempo fa il contenuto di un’ intercettazione ambientale dal quale si desume che un boiardo di stato racconta a un banchiere cattolico come un’ importante componente del governo Monti lo avrebbe premuto per ottenere consulenze alla ex moglie. Dopo qualche giorno la notizia scompare. Riesce dopo diverse settimane una lettera aperta di un economista che chiede al Ministro di spiegare meglio la vicenda. Il Ministro risponde. Una trasmissione televisiva recupera l’intercettazione ambientale. Il giorno dopo due quotidiani ripubblicano la notizia originaria come se non fosse mai uscita; uno dei due quotidiani, il giorno dopo ancora, intervista la ex moglie ipotizza forze oscure ostili al Monti bis. Potrebbero peraltro essermi sfuggiti altri passaggi.

Pochi mesi fa, per i tipi di Penguin, è uscito Trust me I’m lying di Ryan Holiday, un vispo venticinquenne direttore della comunicazione e del marketing globali di American Apparel, ma anche consulente in proprio di registi, attori, politici e altre celebrità. L’autore racconta momento per momento come abbia saputo, all’insaputa dei più e con un uso spericolato di tutti i media, dall’oscuro blogger al New York Times e a _Cnn, _ provocare la caduta di un senatore o manifestazioni nelle università contro l’uscita di un film per attirarci l’attenzione, oppure diffondere il successo di libri mediocri.
Un libro che sconvolge chiunque si occupi di informazione o comunicazione, ma che rivela una delle parti più oscure delle nostre professioni (io sono un relatore pubblico). Perché continuiamo a chiamarli social media e non semplicemente digital media? Il termine ‘social’ ormai ha due forti controindicazioni: da un lato, nello stereotipo organizzativo, implica un oggetto poco concreto, ingovernabile, poco produttivo e suscita diffidenza; dall’altro, fra gli utenti, è una “coperta di Linus” dall’apparente sostanza positiva (democrazia, partecipazione, accesso libero…), e tuttavia alimenta anche la criminalità organizzata, la prostituzione, la pedofilia, la diffamazione. Il neutrale digital media mi pare più appropriato.
Come proteggersi? Come utilizzare invece le stesse potenzialità del digitale per argomentare questioni sensate? Questo, al fondo, è il quesito cui vorremmo trovare una risposta convincente.
La questione sta nell’identificazione, passaggio per passaggio, del filo di Arianna che consente all’operatore consapevole di risalire il labirinto fino ad arrivare (via twitter, facebook, linkedin e tutti gli altri parafernalia della rete) al Los Angeles Times, al New York Times, a Cnn o a Fox News. Oppure al Tg, a Repubblica, Corriere della Sera o La Stampa ).
Per prima cosa, riconoscendo il fenomeno per quello che è: una forte disintermediazione dei parametri tradizionali della catena dell’informazione come l’abbiamo conosciuta, insieme a un ingombrante affollamento di fonti e di canali di cui poco sappiamo vuoi in termini di credibilità e di affidamento che di accesso. Intendiamoci: non intendo certo lamentarmi. L’opacità dell’informazione tradizionale dei giornalisti e degli interessi rappresentati dai relatori pubblici è sempre stata costante, anche prima della diffusione di massa del digitale. Oggi però tutto avviene alla velocità della luce e nessuno di noi ha gli strumenti e il tempo di comprenderne le dinamiche. Come dire: program… or be programmed….
Dal mio punto di vista, mi pare importante per i professionisti monitorarne le dinamiche del fenomeno. Ogni organizzazione (sono ormai tutte diventate anche media) dovrebbe responsabilmente attrezzarsi per capire cosa c’è dietro una notizia, un’ informazione, un’opinione e
Non serve dunque, sempre a mio parere, invocare la regolamentazione della rete a tutela della privacy o degli interessi delle organizzazioni vittime del fenomeno (altra coperta di Linus), se prima non vengono compresi e resi espliciti questi fenomeni di inganno collettivo. Altrimenti, qualsiasi regolamentazione inconsapevole sarebbe soltanto un’ apodittica e intollerabile censura.
Fonte: Huffington Post
Eventi