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Spin Doctoring: un italiano dietro le elezioni tunisine

08/11/2011

Un professionista con una carriera del tutto particolare: è _Giacomo Fiaschi,_ toscano di origine e tunisino di adozione, spin doctor di Nahdha, il partito che ha da poco vinto le elezioni in Tunisia. _Gabriele Cazzulini_ lo ha intervistato creando il ritratto poliedrico e curioso di un occidentale, cristiano, che, senza contraddizioni, lavora per l’affermazione di un Islam democratico.

di Gabriele Cazzulini
Una biografia straordinaria, intrisa di sentimento religioso e passione civile: così Giacomo Fiaschi racconta a Spinning Politics la sua esperienza professionale di consulente politico per il partito Nahdha che ha vinto le elezioni per l’Assemblea Costituente in Tunisia. Ma è un racconto così denso e coinvolgente da abbracciare una vita alla ricerca di un senso comune tra Dio, lavoro e politica – ed è una ricerca che edifica ponti tra cristiani e musulmani, tra Europa e Africa. La politica diventa il linguaggio universale per la convivenza in un popolo e tra i popoli. Dalla vita al tempo di Ben Alì agli spin doctor, dall’infanzia al seminario e poi all’amore della vita, l’islam in cerca di democrazia e un ricordo di Bettino Craxi: è un’intervista poliedrica, come il suo intervistato, da rileggere e da imparare per capire le trasformazioni di un paese di fronte a noi, in attesa, magari, che la prossima volta saremo noi a cambiare.
Partiamo da un autoritratto con cui Giacomo Fiaschi si presenta ai nostri lettori.
Sono nato nella periferia di Prato il 7 giugno (come Baudo, Montesano e Gheddafi) del 1950.
I miei genitori erano operai tessili, vale a dire “artigiani” che avevano abboccato all’esca dei furbissimi industriali pratesi dell’epoca che finanziavano, a suon di cambiali, l’acquisto del telaio a chi si metteva in proprio. In questo modo recuperarono il cottimo scaricandone il peso sulle spalle di questi imprenditori di se stessi che coinvolgevano mogli, genitori e spesso noi bambini: io stesso ho imparato a “mandare il telaio” prima che a leggere e scrivere. Poi il desiderio di andare via, lontano da quel mondo limitato e oppressivo, mi portò ad entrare in seminario.
Era l’anno 1965 e il mondo cominciava ad essere scosso dalle prime onde d’urto d’un terremoto che, qualche anno dopo, avrebbe lasciato in piedi il vecchio e distrutto il nuovo. Don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci (del quale ho avuto il privilegio di essere stato amico ed estimatore) venivano processati per vilipendio nei confronti dello stato perché sostenevano la legittimità dell’obiezione di coscienza. Tempi difficili, è vero, ma fecondi. Negli anni successivi sembrava che il cambiamento fosse lì, a portata di mano. Mai il mondo dei giovani cattolici e quello dei giovani laici progressisti furono così vicini e pronti ad unirsi per dar vita ad un progetto comune. Un signore che si chiamava Enrico Berlinguer era riuscito a creare un linguaggio e uno stile che permetteva a tutti di avere un sogno: quello di superare contrapposizioni sterili e andare avanti, uniti, alla ricerca di qualcosa di nuovo, per il quale valesse la pena di vivere gettando il cuore oltre l’ostacolo.
Poi Berlinguer morì all’improvviso, e poi ancora Aldo Moro fu sequestrato e ammazzato in nome di un nuovo modo di intendere la politica e la società che, nel frattempo, si era rattrappita rinunciando al sogno, all’utopia. I giovani degli anni del grande sogno erano entrati in banca a fare i cassieri e la sola cosa che restava di quel sogno erano un po’ di zazzere, magari spelacchiate, e qualche canzone che veniva suonata su chitarre sempre più scordate. E così decisi di tirare i remi in barca. In assenza di un sogno comune era del tutto inutile continuare a immaginare il futuro. Anche la chiesa si era “aggiornata” e i parroci si erano, nel frattempo, trasformati in presidenti del consiglio di amministrazione della comunità parrocchiale. In una chiesa che aveva bisogno di ragionieri, magari con laurea in economia e commercio, mi sentivo fuori posto. Sono uscito in silenzio, senza clamori, e in solitudine. Poi, dopo un paio d’anni ho incontrato quella che da trentun anni è la compagna inseparabile della mia vita. Con lei e grazie a lei ho potuto continuare a sognare, a coltivare i miei interessi nel campo della logica, che resta l’oggetto dei miei studi. Una passione, naturalmente, e niente di più. Nel 1995 la decisione di venire a vivere qui. In Italia era diventato impossibile vivere del proprio lavoro di artigiani. Era diventato un lusso che non potevamo permetterci. Per quasi vent’anni, parafrasando Proust, dirò che “sono andato a letto presto”. Ho vissuto le fasi drammatiche del precipitare in un regime di dittatura folle la presidenza di Ben Alì, che all’inizio veniva salutato come un vero innovatore garante delle libertà democratiche. Per un filmato che realizzai nel 2004, con il quale denunciavo lo scempio perpetrato (con il sostegno dei fondi europei per l’ambiente) sul litorale di Tabarka – che si può vedere qui –
ho avuto anch’io un assaggino della dittatura di Ben Alì. La diffusione sottobanco di questo video mi ha regalato sei anni di polizia politica alle calcagna, telefono e accesso a internet sotto controllo e via di seguito con amenità del genere. La richiesta di Hamadi Jebali, del quale mi onoro essere amico ed estimatore, di essere suo consigliere politico mi ha colto un po’ di sorpresa e senza dubbio impreparato. Non avendo mai mangiato pane e politica non so se e quanto potrò continuare a occuparmi di queste cose. Staremo a vedere. Le canne da pesca e i miei libri, che da un po’ sto trascurando, mi aspettano pazientemente. Mi consola il pensiero che, in ogni momento, saranno lì, pronti a riprendere servizio.
Cosa vuole dire lavorare per un partito islamico, specialmente con un’identità fortemente cristiana come la sua?
Nahdha è, e lo ha dimostrato con il successo riportato nelle elezioni del 23 ottobre, prima di tutto un grande partito politico di impronta popolare. La religione islamica alla quale il partito Nahdha ispira la propria visione politica, è quella tunisina, che da sempre ha trovato la strada di mantenere con le diverse religioni che qui sono liberamente praticate, un rapporto costante e ininterrotto di amicizia e di fraternità. In tutto il paese, da Ain Drahm a Tataouine, musulmani, cristiani ed ebrei hanno sempre vissuto in amicizia.
Corrispondere all’invito di collaborare con Nahdha per far conoscere in Italia questa realtà sottolineando che il partito intende rafforzare ulteriormente questa civiltà è stata per me la cosa più naturale di questo mondo.
Si riconosce nel termine di spin doctor? Esiste un corrispettivo arabo per indicare la consulenza politica?
La politica da queste parti ha oggi una sua fisionomia che la rende molto diversa, per certi aspetti, da quella che viene praticata in Italia. Più di settant’anni di colonizzazione e cinquantatre di dittatura, la seconda e ultima delle quali si è particolarmente distinta per l’intolleranza e la repressione ferocissima nei confronti di qualsiasi tentativo di fare politica, non ha permesso alle varie componenti politiche che, pure in clandestinità, esistevano, di maturare forme e metodi particolarmente raffinati. Si lavora in modo artigianale, cercando di fare del nostro meglio ma senza quegli strumenti e quegli apparati che sono tipici del modo di far politica in Italia.
Qual è stato finora il momento più felice della sua carriera e quale invece il più difficile?
Il momento più bello è stato senza dubbio quello in cui ho accompagnato Hamadi Jebali, il segretario generale del partito, al meeting di Rimini. E’ la sua prima visita in Italia e in ventiquattro ore ha avuto la possibilità di presentarsi, smontando gran parte dei pregiudizi, a non pochi protagonisti della vita politica italiana, dal Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini al Segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani. Il più difficile è iniziato da quando, in aprile, ho accettato questo incarico. Non è semplice far comprendere che è possibile, ispirandosi all’islam, vivere un’esperienza politica che rispetta e promuove democrazia e rispetto dei diritti umani. E’ un momento lungo, che dura tuttora e che, temo, durerà ancora a lungo perché quando si parla di politica ispirata all’islam è impossibile evitare il riferimento a esperienze analoghe nel resto del mondo arabo-musulmano.
Nella politica e nella comunicazione del mondo arabo, africano, tunisino, qual è la differenza più marcata rispetto al contesto occidentale?
C’è da dire che in Tunisia, come nel resto dei paesi dove vige un regime dittatoriale, la comunicazione è passata sempre attraverso le maglie strettissime della censura. Hamadi Jebali, il segretario di Nahdha, ha subito sedici anni di carcere duro, in isolamento, per la sua attività di giornalista, quando dirigeva il settimanale vicino al partito. Le notizie venivano passate al setaccio della censura e nei giornali non c’era, per esempio, la cronaca nera. Ogni giorno le prime pagine dei giornali aprivano riferendo della giornata del presidente Ben Ali. Il resto era dedicato soprattutto alla politica estera e a editoriali laudativi della politica del suo “buon governo”. Poi la “cultura” ovvero paginate su cantanti et similia, e infine molto sport e le pagine degli annunci economici, che erano le più apprezzate dai lettori.
Vista dalla Tunisia, come le appare la politica italiana e, nello specifico, che opinione ha dell’Italia di Berlusconi?
Soprattutto difficile da capire. La sensazione, in definitiva, è che in Italia la politica sia un mondo autoreferenziale, una specie di anello di Moebius, quello che i matematici definiscono come “superficie non orientabile”, che ha come fine ultimo quello di governare se stesso e non il paese. Un anello di Moebius percorrendo il quale ci si ritrova nello stesso punto dal quale siamo partiti dopo averne percorso entrambi i lati senza accorgersi del cambio. Non si capisce come mai, per esempio, se nel paese esiste un malcontento della gente nei confronti di chi la governa, non si riesce, con elezioni democratiche, a cambiare. Tutto questo, visto da qui, non ha senso.
Passiamo alle elezioni. Com’è stata la campagna elettorale per l’Assemblea Costituente?
Direi, tutto sommato, una campagna sottotono. Non ci sono stati momenti di confronto particolarmente accesi. Benché fossero oltre cento i partiti in corsa, se ne sono visti solo due: da una parte c’era il partito Nahdha e dall’altra quello anti-Nahdha. Tutto è apparso svolgersi su questa contrapposizione che ha finito, ovviamente, per favorire Nahdha che, da parte sua, ha evitato ogni contrapposizione mettendo l’accento sulla necessità di ricostruire le basi per un’economia più giusta e solidale. Moncef Marzouk, leader del CPR (Congresso Per la Repubblica) ha saputo vedere questa debolezza del sistema e, scegliendo la strada della non contrapposizione “a prescindere”, si è piazzato, spiazzando tutti, al secondo posto. La batosta più sonora l’ha presa il PDP che di questa debolezza è stato forse il massimo responsabile diventandone la prima vittima.
Qual è il suo punto di vista su Nahda? E’ un “clone” tunisino dell’Akp turco? Ci sono correnti, c’è una forte leadership, qual è il rapporto con gli elettori?
Nahda ha una sua storia, antecedente a quella del partito di Erdogan, e una posizione geografica che spinge il partito più verso l’Europa. Certamente, se vogliamo trovare una realtà politica paragonabile sotto molti aspetti a quella di Nahdha, l’Akp è senza dubbio quella che più si avvicina. Per le correnti è un po’ prestino. Il partito si è ricompattato da appena sette mesi e credo che, in questo momento almeno, siano più forti le ragioni dello stare uniti di quelle del distinguersi per un motivo o per un altro. Con gli elettori il rapporto rispecchia l’anima di un partito popolare. Entrano ed escono dalla sede del partito e tutti, giovani e vecchi, possono incontrare il Presidente Ghannouchi o il Segretario Generale Jebali senza aver bisogno di fare anticamere. Li ho visti spesso fermarsi per strada a parlare con loro. Nessuno degli elettori, almeno sino ad ora, si è lamentato di non poter dialogare con i dirigenti.
Ci sono due coni d’ombra in questo trionfo democratico. Perchè i feriti della rivoluzione fanno lo sciopero della fame? Chi è Aridha Chaabia e il suo leader Mohamed Hachemi Hamdi, che qualcuno in Italia ha già ribattezzato “il Berlusconi della Tunisia”?
La situazione nelle regioni del sud del paese, in particolare Kasserine e Gafsa, è particolarmente dura a causa di una situazione economica difficile che registra le punte più alte di disoccupazione. Da diversi anni ormai si verificano episodi di protesta che, nonostante la repressione esercitata dal regime di Ben Alì, sono esplosi con particolare veemenza. Non conosco personalmente Hamdi. So di lui quello che sanno tutti: è un uomo d’affari, proprietario di una tv satellitare in Inghilterra che ha deciso di fare politica all’indomani del 14 gennaio. Si dicono sul suo conto molte cose ma, non avendo avuto occasione di verificarne l’attendibilità personalmente, non posso dire niente né, tanto meno, esprimere giudizi. So anche che le liste del suo partito sono state sanzionate con l’esclusione a causa della ripetuta e costante violazione delle norme che regolano le modalità della campagna elettorale, il che ha provocato, come era prevedibile, reazioni abbastanza nervose da parte dei suoi elettori i quali, peraltro, sono concentrati in una delle zone più “calde” del sud dove Aridha aveva stravinto.
L’ultimissima domanda: secondo lei, cosa avrebbe pensato Bettino Craxi di tutto questo?
Difficile dirlo. Non ho mai incontrato Bettino Craxi di persona. L’ho visto una sola volta, di sera (mi pare fosse nell’aprile del ‘98) in un ristorante di Hammamet. Ero seduto a un tavolo con un cliente dell’impresa di mia moglie e l’ho visto entrare accompagnato da un piccolo gruppo di commensali. So che conduceva una vita piuttosto ritirata e che amava intrattenersi con la gente comune, che qui lo ricorda sempre con molto affetto.
Credo che il rapporto con Ben Ali, dopo il suo esilio volontario in Tunisia, non sia stato di tipo “politico”. Che io sappia non ha mai svolto incarichi politici o rivestito ruoli del tipo “consulente” o “consigliere” in seno all’RCD, il partito oggi disciolto di Ben Ali. Se devo dire la mia, penso che se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe certamente suggerito a Ben Alì di tirare meno la corda. Non penso, tuttavia, che fra i due potesse esserci una benché minima possibilità di circolazione di idee da pari a pari: Craxi è stato, infatti, un uomo certamente dotato di grande intelligenza politica e i suoi errori li ha pagati di persona. Ben Alì è stato solo un piccolo dittatore ignorante che ha rivelato di possedere solo due doti in abbondanza: la rozza arroganza del mariuolo alimentata da una gigantesca furbizia. Doti che gli hanno permesso di accattivarsi la simpatia, e in qualche caso la complicità, di quanti, in Europa specialmente, gli invidiavano la posizione.
Tratto da Spinning Politics
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