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Storyteller o King Maker?

01/10/2019

Veronica Crippa

Quali sono le responsabilità e i rischi del comunicatore nella costruzione dell’immagine pubblica? L'analisi di Veronica Crippa.

C’è un aspetto del nostro lavoro che trovo tremendamente seducente. Rappresenta per me - ma credo che lo stesso valga per molti colleghi che svolgono questo delicato compito -  la vera linfa della professione e insieme quella che definirei una specie di attrazione fatale. Uno di quegli eventi della vita che ogni volta ti fa dire “Sorry mum, I did it again!”.

In questi quasi 15 anni, mi è capitato di curare l’immagine di un discreto numero di personaggi più o meno noti, più o meno esposti mediaticamente, talvolta a livello locale, talvolta a livello nazionale e internazionale, nel bene e nel male, in salute e in malattia (giudiziaria).

In questo campo ormai sono diventata piuttosto esperta e ho sviluppato un metodo personale. Comincio con uno studio approfondito del soggetto in questione, un’analisi che racchiude in sé molti elementi psicologici. Mi concentro sui punti deboli, perché andranno mitigati, e su quelli di forza che non solo andranno esaltati, ma anche ricomposti in una immagine esterna coerente. “Aumentata”, direi.

In questo mi soccorrono i miei studi universitari di archeologia, dove ho appreso come ricostruire i tratti di un volto partendo da un teschio. Oggi certamente esistono strumenti più avanzati, ma un tempo si faceva così: si identificavano i punti chiave del cranio, si aggiungevano spessori di diverse dimensioni a seconda delle necessità e sulla base di questi si modellava una ipotesi ricostruttiva, che fosse verosimile.


Ecco, oggi vedo i punti di forza dei miei assistiti come i punti chiave del cranio sui quali aggiungo spessore all’occorrenza, per costruire un’immagine nuova. Un’immagine che deve essere prima di tutto verosimile e credibile, cioè deve trovare un sufficiente numero di riscontri oggettivi nel comportamento della persona, nella sua storia, nella sua attività professionale, nella sua vita privata. Ma è migliore. Come quando usiamo Beautify prima di postare un selfie su Instagram.

Un lavoro di cesello che richiede mesi per essere perfezionato, giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, intervista dopo intervista, discorso dopo discorso. Un po’ spin doctor, un po’ make up artist, alla fine, anche quando la materia prima è molto grezza, ne viene fuori una immagine migliorata e consistente. Credibile soprattutto. Ma non autonoma, ahimè.

Ed è su questo punto specifico che vorrei richiamare l’attenzione perché è qui che di solito cominciano i problemi. 

Posso affermare, sulla base della mia limitata ma rappresentativa casistica, che nella stragrande maggioranza dei casi accade che il soggetto in questione cominci a credere che quella realtà aumentata riflessa dalla propria immagine pubblica sia vera, reale. Ci si riconosce e ci si sente a proprio agio. Comincia a crederci, insomma, e a pensare di non avere più bisogno di supporto da parte del professionista, perché ormai si è convinto di essere l’unico artefice del proprio successo e di avere in sé tutto il necessario per poter procedere da solo. Ho osservato questa dinamica elementare in quasi tutti i personaggi con cui ho collaborato fino a ora, senza distinzione di età, genere, settore professionale, grado di visibilità mediatica.

Mi sono resa conto che a questa loro nuova sicurezza contribuiscono in modo determinante molte delle attività che noi comunicatori mettiamo in campo per raggiungere il nostro ambizioso risultato finale: dal media training alle lezioni di public speaking, dal ghost writing al filtro quasi ossessivo dei rapporti con la stampa, e molto altro. Inclusi contenuti scelti con cura, seminati e coltivati con pazienza.

Un bravo professionista studia ogni dettaglio al millimetro e costruisce un perfetto abito su misura che slanci la figura, assottigli la pancia prominente, faccia sembrare le spalle più dritte, il passo più elegante, il sorriso più sincero…  Uno straordinario percorso personalizzato che ha come unico scopo quello di elevare il grado di self confidence dell’aspirante personaggio in questione, per rendere più solida la realtà aumentata che stiamo pianificando.

Ecco, a me questa sorta di “king making” (dell’apparenza) da grandissima soddisfazione. Come una specie di opera d’arte che si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi dettagli. Finché dura. 

Perché a un certo punto, non appena si tocca il punto più alto, normalmente accade la rovina: basta che noi comunicatori facciamo un passo di lato, nemmeno indietro, e tutto crolla così rovinosamente a terra, che non è possibile recuperarlo nemmeno tendendo la mano.

Ho osservato questo fenomeno in quasi tutti i casi che ho seguito professionalmente e questo mi ha portato a maturare la convinzione che nel nostro lavoro di storyteller è insito un profondo pericolo, una debolezza intrinseca dalle conseguenze imprevedibili, che talvolta diventa una vera e propria responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica. E noi comunicatori dovremmo esserne maggiormente consapevoli.

 

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