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Tifo, consulenza politica e propaganda

03/10/2012

Si può essere consulenti seri e allo stesso tempo supporter del cliente? Se è vero che la politica, come lo sport, mette in gioco meccanismi di appartenenza valoriale, l’unico modo per mantenere un distacco obiettivo dal proprio cliente è, secondo _Matteo Colle,_ esaltare la componente professionale e non assecondare l’emotività.

di Matteo Colle
Se i social network, e segnatamente Twitter, hanno un merito, senza ombra di dubbio è quello di provocare piccoli o grandi dibattiti. In uno piccolissimo mi sono trovato coinvolto qualche giorno fa, quando ho chiosato il tweet di un collega, sostenendo che consulenza politica e tifo, inteso come partigianeria e sostegno schierato al politico/cliente, sono tra loro incompatibili. Non c’è peggior tragedia per chi fa questo lavoro, ho sostenuto, di quella che capita a chi perde obiettività, di chi grida al rigore per ogni fallo e chi si infervora per le parole del proprio assistito.
Tralasciamo pure le conseguenze che ha avuto il mio commento, ma il nodo rimane. E rimane intatto. Si può essere consulenti seri e allo stesso tempo supporter del cliente? Una prima considerazione da fare è che la politica annebbia la vista. Basta riproporre la domanda in un altro modo e già se ne evidenziano i limiti: si può essere consulenti di una marca di bibite gassate essendone grandi consumatori ed estimatori? Posta in questi termini la risposta è talmente ovvia che la stessa questione perde di senso. Certo che sì. Eppure non è la stessa cosa. La politica, come il calcio, son cosa diversa. Senza scomodare i classici che per anni sono stati alla base dello studio dei comportamenti organizzati: dal tifo calcistico, alle proteste di piazza, è evidente che politica e calcio (in Italia per carità) mettono in gioco spontaneamente i meccanismi dell’appartenenza valoriale, al gruppo, a qualcosa di più grande di noi insomma. Un’appartenenza che è motore di una strutturazione emotiva dell’azione sociale che, a detta di alcuni, travalica nell’irrazionalità. E – per inciso – è proprio questo meccanismo che i colleghi del marketing delle suddette bibite gassate cercano di mobilitare con raffinate tecniche di comunicazione.
Di più, se seguiamo Bauman, il tifo, anche quello politico, sarebbe un refugium, un riparo di fronte all’inquietudine esistenziale a cui siamo esposti nella postmodernità. Che applicata a noi consulenti sarebbe come dire che a fronte di uno spappolamento delle certezze della professione e del declino degli approcci derivati dal marketing, l’unico rimedio è credere, fortemente credere, nel nostro prodotto/candidato e sperare, in questo modo, di trasmettere nella comunicazione la stessa nostra passione. Peggio che andar di notte.
Ma allora si può essere tifosi e consulenti. Si può fare gli anatomopatologhi del politico candidato, capirne i difetti, i limiti i pregi personali e pubblici, essendo coinvolti emotivamente? Si può valutare la caratteristica di un’offerta politica, verificarne le fragilità e i punti di forza, essendone avvinti perché convinti? Continuo a pensare che no, non si può. Si userebbe inevitabilmente uno sguardo amico perché partecipe o arcigno perché ferito. Ci si sentirebbe parte di un gruppo di pari che si sceglie di supportare e magari guidare. Gli avversari di campagne, diventerebbero nemici. E da consulenti si diverrebbe amici, complici e amanti. Che andrebbe di lusso se parliamo di persone, meno se si tratta di saponette o bibite gassate. E solo il paragone dovrebbe dire tutto.
E allora come fare? Come uscire dall’impasse tra tifo e paradosso della persuasione? Se non è possibile tifare e, dall’altra, pretendere di convincere gli altri di ciò che non convince nemmeno noi, è tempo buttato oltre che poco credibile professionalmente, come si esce dal dilemma? E’, a mio avviso, tra i nodi più delicati della professione ed è difficile azzardare una risposta. Tanto più che nella consulenza politica i ruoli sono molteplici: dal portavoce al consulente esterno, le cose possono cambiare non poco. Posso dire come me la sono cavata in 12 anni di professione e come me tanti che conosco: mettere da parte la propria fede politica, costruire un feeling personale (ma non necessariamente ideale) con il proprio cliente, in ogni scelta esaltare la componente tecnico-professionale e non assecondare l’emotività, non parteggiare mai e mantenere un distacco che non è indifferenza neutrale (siamo umani) ma è quella, così mi capita di spiegarlo a chi me lo chiede, del chirurgo che incide: non sente il dolore altrui e per questo non ha paura di affondare il bisturi.
Fonte: MR Blog
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