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Toni Muzi Falconi: cinquant’anni di relazioni pubbliche

11/07/2011

Una carriera che ha attraversato il XX° secolo. Un professionista che ha incontrato i più importanti volti della comunicazione a livello internazionale. Alla vigilia del suo settantesimo compleanno, _Toni Muzi Falconi_ ripercorre il suo percorso professionale e i cambiamenti della professione di relatore pubblico, sempre con uno sguardo rivolto al futuro.

di Toni Muzi Falconi
New York, lunedì 11 luglio 2011
Cari amici e colleghi,
fra 11 giorni – poco meno di due settimane – compio 70 anni, 50 dei quali esercitati (con una certa intensità) nelle relazioni pubbliche.
Guardo con stupore e ammirazione a Harold Burson (oggi ne ha 90 suonati) che nel suo blog, pochi giorni fa ha scritto , tra l’altro:
“…Mentre ci impegniamo a servire e ad essere retribuiti dal nostro datore di lavoro o cliente, quelli di noi che hanno scelto le relazioni pubbliche, rispondono a un dovere implicito verso ciò che chiamiamo “interesse pubblico”: quello che è meglio per la società, poiché così è meglio per il nostro datore di lavoro o cliente. La nostra funzione di professionisti di relazioni pubbliche è di conciliare gli obiettivi del cliente con l’interesse pubblico. Una parte del nostro lavoro sta nel comprendere e interpretare le dinamiche di quelle attitudini pubbliche che producono conseguenze sulle attività del nostro cliente e nel monitorare continuamente se i comportamenti del nostro cliente corrispondano alle sue promesse e alle aspettative del pubblico…”.
E’ sempre stato così… anche prima di Internet e dei social media…
Naturalmente, come in qualsiasi altra professione (con la specificità che, nella nostra, non più di 5/10 professionisti su 100 fanno parte di una associazione professionale) una larga parte degli operatori esercita inconsapevolmente la propria professione.
Ma tant’è: se questo luogo è quello in cui convergono coloro che sono consapevoli ed esercitano con responsabilità, mi pare utile citare Harold anche perché – come capite benissimo – il suo ragionamento poco o nulla ha a che vedere con una questione etica o deontologica: dice esplicitamente che il professionista responsabile è semplicemente più efficace, non più etico. Comprendere, interpretare le attitudini dei pubblici e monitorare le loro dinamiche sono abilità e competenze di ascolto che nessuna scuola, nessuna università insegna. Cosa aspettiamo per mettere i giovani in condizioni di fare meglio di quanto abbiamo saputo fare noi? Altrimenti, a che serve una associazione professionale?
Passando invece dalla vostra parte dell’Atlantico, mi sono letto con molto interesse i risultati dell’ultimo European Communication Monitor appena reso pubblico.
Giunto alla sua quinta edizione, questo lavoro condotto da un nucleo di ricercatori diretto da Ansgar Zerfass, dell’Università di Lipsia per conto di Euprera e dell’EACD (associazione europea dei direttori di comunicazione), raccoglie e interpreta le risposte di ben 2.209 professionisti di 43 Paesi e fotografa lo stato della nostra professione in Europa.
E’ una lettura integrale che consiglio a tutti, e mi limito a coglierne soltanto uno spunto importante che, in conclusione, mi ricollega ancora al vecchio Harold, passando però anche per temi già discussi in questa sede.
Dunque, da pag. 18 a pag. 30, il lavoro di Zerfass sviluppa la questione della credibilità delle relazioni pubbliche e giunge a conclusioni non dissimili da quelle cui è giunto Gianluca Comin interpretando l’analisi di Eurisko come ci ha raccontato alla recente Assemblea Ferpi e che avevo già commentato qui.
In effetti se il 42% dei rispondenti europei afferma che il termine ‘relazioni pubbliche’ è screditato, ben il 74% afferma che le sue connotazioni negative diminuiscono la fiducia nei professionisti della comunicazione. Se però correliamo queste risposte con quel 42% che afferma ‘nel mio paese le connotazioni negative del termine ‘relazioni pubbliche’ sono dovute a quello che scrivono i mass media’, allora possiamo arguire che poco più del 50% di coloro che dicono che il termine è screditato attribuiscono quel discredito a ciò che scrivono i mass media. Per capirci meglio: se anziché di ‘relazioni pubbliche’ i media parlassero di ‘comunicazione’ o di ‘reputation management’ o di qualsiasi fantasiosa nomenklatura che – come diceva David Ogilvy sulla pubblicità istituzionale, ‘è come farsi pipì addosso, nessuno se ne accorge e si sente tanto caldo dentro…’ – fra qualche anno riscontreremmo che la maggior parte dei nostri colleghi riterrà che la comunicazione (o il reputation management) sia un termine screditato. I media infatti non discreditano una professione, ma discreditano (e solo qualche volta…) i comportamenti!
In Italia poi, stando a quel che ci ha detto Gianluca sulla base dei dati Eurisko, la maggior parte degli Italiani considera la comunicazione come ‘informazione’ (e quindi va farsi benedire quello che dice Harold Burson: la funzione riflessiva), come ‘pubblicità’ (e quindi va a farsi benedire il dialogo a due vie) e poi come ‘propaganda’ (e quindi va farsi benedire il dialogo tendenzialmente simmetrico). Sembra invece che il 33% associ il termine comunicazione alle ‘relazioni pubbliche’, anche se sarebbe interessante capire che cosa intendano…
Le ricerche sono proprio controproducenti quando non vengono preparate, lette e interpretate con un minimo di attenzione!
E questo mi riporta a Harold Burson, il quale – in una intervista di sei anni fa su Prima Comunicazione – mi disse:
“…fino al 1972 (scandalo Watergate) tutte le più importanti imprese avevano una direzione relazioni pubbliche che riportava direttamente al CEO. Poi, siccome le registrazioni delle conversazioni di Nixon (diventate pubbliche al processo di impeachment) hanno ripetutamente rivelato che il Presidente usava il termine ‘public relations’ ogni volta che ordinava ai suoi di commettere un reato o di raccontare una bugia, i direttori relazioni pubbliche delle imprese maggiori decisero insieme di cambiare nome e di chiamarsi ‘comunicazione’. E’ stata la più grande fesseria che la nostra professione ha mai fatto….”
E ne subiamo ancora le conseguenze, anche qui in Italia…
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