Ferpi > News > Un Atlante delle nostre malattie professionali: tenersi il cecio in bocca!

Un Atlante delle nostre malattie professionali: tenersi il cecio in bocca!

08/02/2005
Per una professione che, come la nostra, diviene matura è importante conoscere, approfondire e trovare antidoti alle malattie professionali.
Nella speranza che i lettori, soprattutto quelli più esperti e paludati, vorranno riflettere su loro stessi e descrivere razionalizzandoli i nostri tic, le sindromi, le manifestazioni apparentemente anomali per avviare un ‘Atlante' delle nostre malattie e verificare se, anche nei nostri percorsi educativi a tutti i livelli, non si possano introdurre anticorpi adeguati….. Intanto, comincio a descriverne qualcuna:1. C'è la sindrome del tappetino: il cliente/datore di lavoro ha sempre ragione, il suo nemico è il mio nemico e qualunque cosa il capo esiga o mi dica è per definizione giusto, poiché è lui che paga. Anzi! Il mio massimo valore aggiunto si realizza nel migliorare l'apparenza dei suoi errori, delle sue follie, delle sue vanità…nel razionalizzare qualsiasi sua idea, anche la più balzana, per farla apparire verosimile.Rispetto a questa sindrome, assai diffusa soprattutto nelle agenzie, le nostre competenze e abilità (sempre che ci siano..) sono al servizio di una causa (quella del cliente/datore di lavoro) che però non è detto sia sempre nell'interesse della organizzazione e dei suoi stakeholder (azionisti compresi), poiché non sempre questi interessi coincidono. Il cosiddetto senso dell'istituzione dovrebbe imporre al relatore pubblico di far sempre prevalere l'interesse generale dell'organizzazione a quello particolare e non sempre uguale del Ceo o del singolo componente della coalizione dominante per cui lavora in quel momento.Fino a che punto possiamo e dobbiamo non soltanto fare quello che ci viene detto di fare… ma fare di più, migliorare, rendere più appetibile, più credibile agli altri le fesserie del nostro capo/cliente sapendo che così facendo altro non facciamo che peggiorare la situazione per l'insieme dell'organizzazione e i suoi stakeholder?Se noi rimuoviamo, perdiamo, annulliamo la  nostra riflessione critica finisce che poi reagiamo pavlovianamente a qualsiasi stimolo professionale sempre nello stesso modo, abbattendo il valore della nostra prestazione professionale.2. C'è poi la sindrome opposta, quella che un cliente una volta mi rinfacciò esplicitamente, la sindrome di Stoccolma: il giornalista (o il politico, o l'analista finanziario, o l'ambientalista, o il consumerista…) ha sempre ragione e il mio massimo valore aggiunto sta nel convincere il cliente/datore di lavoro ad attivare ogni flessibilità per venire incontro alle aspettative dell'interlocutore, indipendentemente da una attenta analisi dei costi benefici per l'organizzazione che mi paga.Questa è una deviazione patologica dal cosiddetto ruolo riflessivo del relatore pubblico -uno dei suoi due ruoli strategici (l'altro è quello educativo)- quello per cui il relatore pubblico ascolta le aspettative degli stakeholder e le interpreta per la coalizione dominante, preferibilmente prima che siano stati definiti gli obiettivi operativi da perseguire; o anche dopo, ma comunque in tempo per ‘riassestare' l'iniziativa senza oneri eccessivi.Fino a che punto è giusto che il relatore pubblico esprima critiche e ‘remi contro'?A parte che prima o poi il datore di lavoro/cliente si stuferà…resta però il fatto che prima che questo accada sarò riuscito a produrre non pochi danni. Come me ne accorgo? Fino a che punto lo stimolo critico è utile all'organizzazione anche se inviso ad alcuni?E infine, ne va anche di mezzo la mia credibilità professionale: se i componenti della coalizione dominante si mettono in testa che io sono comunque un ‘rompic…..' è difficile che io possa acquisire la credibilità sufficiente per influire davvero sulla scelta degli obiettivi da perseguire, e così perdo il mio ruolo strategico nell'organizzazione.3. Forse si tratta soltanto di una peculiare e acuta manifestazione della precedente, ma è una malattia che si diffonde con particolare intensità da quando è invalsa la consuetudine di alcune organizzazioni di affidare a giornalisti professionisti, provenienti dai giornali, la responsabilità di sviluppare e mantenere i rapporti con la stampa (anche se, per la verità, alcune sue manifestazioni erano riscontrabili già prima): è la sindrome del cecio in bocca.Si verifica quando il responsabile della comunicazione o dell'ufficio stampa è talmente convinto, in buona fede, che il suo ruolo più importante sia di aiutare i suoi ex-colleghi giornalisti a fare meglio il loro lavoro (e fin qui nihil obstat… anche se nelle manifestazioni più acute si ricade nella sindrome del tappetino con l'attribuzione al giornalista del ruolo del cliente/datore di lavoro, forse nella inconsapevole speranza che un giorno… chissà?..  si liberi un posto di inviato, o di caporedattore o di vicedirettore…), e che non riesce a tenere -come dicono i romani- ‘un cecio in bocca'…fino a spiattellare come vera o comunque verosimile -con la ovvia garanzia dell'anonimato- qualsiasi rumor, notizia, intuizione, supposizione udita frequentando le segrete stanze del potere organizzativo…fino al punto di inventare avvenimenti o supposizioni di sana pianta, purché non completamente balzane, servendosi della credibilità sia personale sia istituzionale derivante dal ruolo ricoperto. E' il paradosso del modello di Barnum, la press agentry al suo apice. Quest'ultimo è lo stadio finale della malattia, nel senso che quando anche il giornalista si accorge che le notizie sono inventate, pietosamente lo ascolta ma dopo la terza volta che le verifiche danno risultati opposti, non userà più quella fonte per i suoi articoli. E il peggio, ovviamente, accade quando un relatore pubblico afflitto da sindrome del ‘cecio in bocca' si relaziona con un giornalista afflitto da sindrome del ‘tu pubblica tutto che intanto chi se ne frega se smentiscono'.Osservate con attenzione il collega afflitto da ‘cecio in bocca'….quando squilla il telefonino e scorge il nome del suo fidato amico giornalista sul visore gli si illuminano gli occhi, gli saliva la bocca, abbassa il tono e, ascoltata la domanda, si inerpica per una spiega tortuosa, racconta ogni particolare della riunione, all'apparizione di quale slide è scoppiata la rissa fra i manager, le parolacce del ceo indirizzate al cfo e così aggiungendo -con una coazione analoga all'assunzione di nicotina dopo astinenza- anche cose non accadute che però sarebbero potute accadere, fino a sprofondare, quando il cellulare si spegne, in una espressione di sazietà e beatitudine, per poi pochi minuti dopo riavviare il deja vu alla prossima telefonata.Ecco dunque tre della tante malattie professionali della nostra professione.Coraggio amici, diamoci una mano a costruire l'atlante così che i più giovani stiano più attenti, imparino a riconoscere i primi sintomi e a correre ai ripari anche per contribuire a ridurre i danni che noi stessi produciamo agli altri e (talvolta) persino inconsapevolmente. Per dire la vostra: redazione@ferpi.it(tmf)
Eventi