Annamaria Anelli
Il 10 agosto 2023 è morta Michela Murgia. Ferpi la ricorda come scrittrice, come attivista, come donna, come persona che non ha mai smesso di far sentire la propria voce, fino alla fine.
Faccio fatica a dire che cosa è stata per me Michela Murgia.
Io sono una femminista tardiva, cioè giunta a esserlo da grande, ma non me ne vergogno più perché mi dico che è meglio arrivarci con lentezza, che non arrivarci mai. E poi è Murgia stessa, in un reel-lettera d’addio a tutte noi, a dirci che è tempo di smetterla di voler certificare il femminismo altrui. Ognuna, come sa e può, compone un pezzetto del quadro complessivo: un universo femminile che con forza e pazienza cerca di combattere il patriarcato.
Al caldo di queste parole mi assolvo, riconosco le mie mancanze e cerco di leggere e studiare quanto posso.
Il femminismo di Murgia (e di moltissime altre persone) è quello intersezionale: cioè quello che riconosce che essere ciò che si è, con le proprie unicità e le proprie differenze, può portare a marginalizzazioni o a privilegi a seconda delle geografie sociali nelle quali si ha la sfortuna o la fortuna di nascere.
Faccio un esempio semplificando le parole della geografa Leslie Kern: portare a spasso un bambino in passeggino nelle vie cittadine serve per capire il vissuto delle persone che si spostano in carrozzina. Provare la solitudine angosciosa di una donna che esce sola la sera in luoghi non sorvegliati serve per capire cosa provano quotidianamente le persone che non si sentono mai sicure, dovunque vadano, ad esempio per il colore della propria pelle.
Ecco, per me essere femminista significa spostare il mio baricentro empatico un po’ più in là. E poi agire. Che vuol dire anche solo scrivere, cioè denudare i miei pensieri e mettere in condivisione le mie paure.
Ma in questo reel-lascito Murgia dice un’altra cosa: che si diventa femminista a partire da una ferita personale e che nessuna lo diventa perché non ha altro da fare. Ci ho pensato tantissimo quando, in uno scambio via chat tra di noi, Daniela Poggio mi ha mandato questa citazione: “Una donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna”. Lei è Carla Lonzi, attivista e critica d’arte che negli anni ’70 ha detto, scritto e fatto cose che ancora smobilitano viscere (anche qui: tutto da studiare!).
Probabilmente ho preso consapevolezza delle ferite altrui, soprattutto di quelle femminili, quando ho incominciato a guardare negli occhi le mie. Ma non bastava guardarle: con la terapia ho iniziato a dar loro i nomi; leggendo Michela Murgia ho proseguito con la toponomastica, alla ricerca dell’origine, delle cause sociali e culturali di quelle ferite individuali. Per scoprire che non erano (e non sono) solo mie.
Michela, è stato nella tua autenticità che io ho trovato la risonanza di me. Sei tu che per prima mi hai spiegato la parola patriarcato, è da te che sono partita a studiare, a indagare. Continuo a farlo, e continuo anche a sbagliare, perché spostare il baricentro empatico è una pratica senza fine. Non sto imparando a perdonarmi, su questo non faccio promesse, ma sto imparando a stare sulla soglia.
Quando in "God save the Queer" hai parlato della pratica della soglia mi sei proprio detonata dentro: ho sentito che non c’è niente di male nell’indefinitezza, nell’essere in quella zona dove sempre si cerca e mai si è sicure. Forse, anzi, alla tua ombra ho capito che per me è quella soglia, la mia autenticità.
Chiudo con Giulia Blasi (altra grande maestra):
“Adesso lei non c’è: il peso ce lo dobbiamo distribuire. Con coraggio, sapendo che non avremo mai neanche un quarto della sua potenza espressiva e della sua lucidità, ma possiamo imparare. C’è forza nei numeri, e non c’è modo migliore di raccogliere un’eredità e tenere in vita una persona che amiamo e ammiriamo che buttarci in avanti con coraggio e forza, sostenendoci a vicenda come e più di quanto facevamo con lei”.
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Foto: ANSA