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Chi storia non pro-ferisce, di storia perisce

14/01/2016

Mario Santamaria

Da alcuni anni un killer invisibile miete vittime tra gli ulivi salentini: è la Xylella Fastidiosa, un batterio che sta devastando le coltivazioni pugliesi. Il fenomeno, oltre che rilevante per l’agricoltura, lo è anche da un punto di vista mediatico, dal momento che alcuni ricercatori sono stati accusati di aver importato di proposito il batterio. La domanda da porsi è perché? Perché la gente preferisce credere alle teorie del complotto piuttosto che alla scienza? La risposta, come racconta Mario Santamaria, ha molto a che fare con la comunicazione.

Ma davvero gli italiani odiano la Scienza? Dopo le perplessità di Nature e Washington Post anche Paolo Mieli ci va giù pesante (Corriere della Sera, 11 gennaio 2016). Sembrerebbe che nel nostro paese la gente creda a complicati complotti e non si fidi più degli scienziati, degli esperti della materia. Il caso specifico è quello della Xylella Fastidiosa, il batterio killer degli ulivi. I magistrati della Procura di Lecce – cittadini con particolari poteri decisionali, ma anche loro potenzialmente parte della “gente che crede” – hanno addirittura accusato i ricercatori salentini di aver importato di proposito il batterio per favorire la sostituzione delle piante tradizionali con piante “moderne”. Tirando in ballo la malvagità fatta agricoltura: la Monsanto.

A prescindere dai dettagli dell’Operazione Ulivi – con i quali ci si può intrattenere leggendo sia Mieli che le varie versioni che popolano la Rete – la cosa che continua a stupire è che raramente i media – ma anche gli “esperti” – si pongano il problema cruciale del “perché”. Perché la gente – e per favore non parliamo degli italiani come fosse anche questa una colpa nazionale da espiare – crede, si appassiona ed è disposta a leggere, studiare e diffondere improbabili e spesso irrealistiche ipotesi di complotto?

Una risposta esiste. Ed è frutto di studi… scientifici, nemmeno a farlo apposta. Ma prenderne atto implica un profondo esame di coscienza da parte degli stessi ricercatori e della loro fondamentale incomprensione (nel senso di non-comprensione) della natura espressamente narrativa dell’interpretazione umana. Del bisogno genetico, e quindi difficilmente modificabile, della nostra specie di filtrare l’esperienza attraverso griglie narrative. Di fatto ci nutriamo di storie almeno fin dal Paleolitico. Iniziamo a mangiarne poco dopo aver imparato a masticare. Le chiediamo con forza fra i vagiti dell’infanzia, le ingurgitiamo con un piacere indescrivibile e poi, presto o tardi, iniziamo anche a raccontarle. A partire dai miti di fondazione per arrivare al multiplayer video-gaming, si è scoperto che il cervello umano si accende in presenza di una trama, di un problema da risolvere, di personaggi a tutto tondo che affrontano un dramma e ne vengono a capo, di buoni che perorano la causa dei giusti e di cattivi che la mettono a repentaglio.

Non a caso l’Operazione Ulivi appartiene esattamente a questa tipologia. C’è il malvagio che più malvagio non si può: la Monsanto, la Spectre dell’agroalimentare. C’è l’arma letale che minaccia di uccidere la dieta mediterranea. Ci sono squadre di ricercatori complici del complotto che, sotto le sembianze di un convegno, pianificano il contrabbando del patogeno verso le rigogliose colture del Salento. Ci sono il sinistro prof. Godini (lo scienziato venduto agli interessi del capitale) e il Capo della Guardia Forestale Silletti (il perfido uomo in divisa). E ovviamente ci sono i buoni, i magistrati illuminati (Motta, Mignone e Licci) che hanno scovato l’inganno, supportati dai buoni per eccellenza: i movimenti ambientalisti (disinteressati e pronti a immolarsi per la causa) e i politici che dell’onestà hanno fatto un brand (i pentastellati delle interrogazioni parlamentari). Gli ingredienti sono così golosi che se fossi un produttore hollywoodiano avrei già trovato l’idea per il blockbuster del 2016. Il setting è talmente perfetto che verrebbe voglia di scriverci una storia – se non fosse che basterà stare a guardare e – a parte un finale poco edificante – la storia si scriverà da sola.

Ma dov’è la contro-storia? Dov’è la contro-narrazione? Stamina, scie chimiche, vaccini e autismo, la predizione dei terremoti, ecc. Per ogni tema inglobato dalle complicate spire di una teoria del complotto non esiste alcuna contro-storia avvincente, strutturata, pienamente umana. In genere, il modo in cui la scienza (e tanti dei suoi comunicatori) risponde è lo sdegno, il senso di superiorità e, quando va bene, il diluvio specialistico e spesso incomprensibile di elenchi puntati.

I ricercatori (non tutti ma la maggior parte) vorrebbero essere ascoltati ma non si sforzano di parlare la lingua degli interlocutori. Quella stessa lingua di cui altri scienziati come loro saprebbero illustrargli i misteri. I ricercatori vorrebbero sconfiggere il batterio dell’ignoranza scientifica usando l’antibiotico con cui sono più a loro agio, non quello che si è dimostrato efficace. I ricercatori vorrebbero costruire gli edifici della versione corretta senza mai sporcarsi le mani con il fango della narrazione. Vorrebbero educare i cittadini chiedendogli di smettere di appartenere alla specie umana, di capire, analizzare e sentire attraverso gli strumenti che l’evoluzione della specie gli ha messo a disposizione.

Gli scienziati potrebbero essere gli eroi di piccole e grandi vicende appassionanti in cui brandiscono spade di luce nell’oscurità delle certezze fideistiche. Basterebbe che imparassero che pubblicare su una rivista scientifica non è sufficiente. Che il sapere non discende nell’intelletto della popolazione come lo spirito santo e che ormai la società gli richiede implicitamente di svolgere un ruolo diverso, non solo investigativo. Che presentarsi nella terra degli altri cercando di impartire una lezione incomprensibile ha il triste sapore dell’invasione coloniale, è stato già fatto e in generale non ha funzionato (o meglio, le conseguenze sui saperi sono lì di fronte agli occhi di tutti).

Questo ovviamente se l’intento è quello dichiarato. Ovvero puntare alla diffusione di una versione (sempre di storie parliamo) corretta dei fatti. Se invece l’indignazione generale nasconde l’intento di rimanere comodamente nell’Olimpo del sapere corretto senza fare nulla perché le cose cambino, vivendo della rendita di posizione di chi si lamenta e si sdegna, allora la questione è diversa.

Sono ragionevolmente sicuro che l’intento non sia questo. Ma la risultante delle forze in campo sì. E si sa, se di comunicazione si parla, è sempre l’abito che fa il monaco. La maschera nera, che fa il cattivo.
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