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Chiacchiere di bottega. Relatori pubblici e analisti di politiche

31/07/2008

Vi (ri) proponiamo un'interessante lettura per le vacanze: "Il barbiere di Stalin. Critica del lavoro (ir)responsabile":http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/libri/il-barbiere-di-stalin-critica-del-lavoro-irresponsabile/notizia_rp/38036/27, arricchita dalla prefazione di Aldo Bonomi e dalla postfazione di Toni Muzi Falconi. Buona lettura...

Il Barbiere di Stalin di Paolo D’Anselmi sviluppa – con rasoio e determinazione – una acuta critica della società italiana contemporanea partendo dalla prospettiva del lavoro dei relatori pubblici e da come questi raccontano agli stakeholder le organizzazioni sociali, private e pubbliche per cui lavorano. Nell’analizzare ora il peso specifico di questo testo mi pare utile partire da una premessa generale.


Da sempre, le organizzazioni si sono «raccontate» ai loro pubblici influenti: cittadini, elettori, volontari, collaboratori, azionisti, clienti, distributori, fornitori, associazioni, istituzioni, media, comunità… insomma tutti i pubblici specifici che contribuiscono a ostacolare o facilitare il raggiungimento degli obiettivi. Sono racconti con livelli variabili di consapevolezza, competenza, creatività e aderenza alla comune percezione del vero, che hanno per oggetto sia le intenzioni che i comportamenti agiti di quelle organizzazioni, con l’intento di convincere quei pubblici della coerenza delle proprie intenzioni con le loro aspettative e dei comportamenti agiti con le intenzioni annunciate. Tale coerenza tra intenzioni e comportamenti è ciò che D’Anselmi chiama cultura dell’attuazione.


Rispetto alle intenzioni, le organizzazioni generano vincoli interni, determinati perlopiù dalla preoccupazione di far circolare informazioni di particolare valore (proprietà industriale e intellettuale); e subiscono vincoli esterni, motivati dal timore che la diffusione di informazioni intempestive, fuorvianti o comunque dirette esclusivamente a segmenti di pubblici privilegiati, possa produrre conseguenze indesiderate sulle dinamiche del mercato (normative obbligatorie e regole condivise).


Rispetto invece ai comportamenti, le organizzazioni, preferiscono ove possibile privilegiare il racconto di quelli capaci di produrre conseguenze positive sulla loro licenza di operare (1) e omettere quelli capaci di produrre conseguenze negative. Intorno a questa attività delle organizzazioni – sempre più affollata a mano a mano che le leadership si rendono consapevoli della crescente importanza della loro licenza di operare per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti – si è andata creando negli anni una fitta selva di consuetudini, norme, concetti, processi e regole operative, scritte e non scritte, nel cui perimetro operano professionalmente oggi nel mondo da 2.5 a 4 milioni di operatori (in Italia quasi 100.000) che sviluppano e consolidano relazioni con i pubblici influenti (2).


La professione delle relazioni pubbliche, che produce un impatto economico globale annuale intorno ai 400 miliardi di euro (in Italia 15 miliardi), si è diffusa pervasivamente in tutto il mondo e le sue origini risalgono alla fine dell’Ottocento, quando alcune grandi organizzazioni private guidate dai cosiddetti robber barons (i Morgan, i Rockefeller, i Vanderbilt…) – preoccupate che l’attività investigativa e pubblicistica di «raccontatori esterni» (i muck crackers, giornalisti progressisti cui si deve l’avvio del mito del giornalismo investigativo anglosassone) potesse compromettere la loro licenza ad operare, e in particolare interrompere l’erogazione dei fondi pubblici necessari per attuare le grandi infrastrutture nella costa nordest dell’atlantico: ferrovie, telecomunicazioni, autostrade reclutarono, portandoseli in casa, alcuni giornalisti con l’incarico di migliorare la qualità e la credibilità pubblica del racconto delle loro intenzioni e dei loro comportamenti agiti (3).


Una recentissima ricerca (4) condotta da Chiara Valentini e dal sottoscritto sulle relazioni esistenti oggi fra giornalisti e relatori pubblici nel nostro paese, e il sorprendente dato emerso da un’altra ricerca recentissima (5) dell’Università di Cardiff (UK) dalla quale si desume che l’82 per cento delle informazioni pubblicate dai giornali provengono da fonti organizzative (relazioni con i media), aiutano a capire la natura della percezione che l’opinione pubblica ha dei relatori pubblici e della loro attività professionale. In estrema sintesi, dalla nostra ricerca emerge che mentre il giornalista pensa che il lavoro del relatore pubblico consista prevalentemente:


a) nel tenere i rapporti con la stampa;
b) nell’organizzare eventi di cui i giornali si occupino;
c) nell’ amplificare la conoscenza delle idee, dei prodotti e dei servizi delle organizzazioni tramite la stampa…;


il relatore pubblico pensa invece che la sua attività professionale consista prevalentemente nel:


a) migliorare le relazioni fra la sua organizzazione e i pubblici influenti;
b) interpretare le aspettative di quei pubblici per contribuire a migliorare la qualità della organizzazione;
c) tenere i rapporti con i media.


L’implicazione è che mentre il giornalista (che contribuisce peraltro in modo rilevante a formare l’opinione pubblica) pensa che il lavoro del relatore pubblico sia tutto rivolto verso l’esterno e che i giornalisti siano il suo tramite quasi esclusivo; il relatore pubblico pensa invece che il proprio lavoro sia rivolto – sì – anche verso l’esterno, ma impegnato nel dialogo con tutti i pubblici influenti (la funzione che si può definire relazionale); ma, dato ancora più interessante, soprattutto nell’usare quel dialogo per interpretare le aspettative dei pubblici influenti al fine di migliorare la qualità della propria organizzazione (la funzione che si può definire riflessiva).


Ebbene, per la prima volta in Italia, l’opera di D’Anselmi, focalizzata sì sulla rendicontazione, getta un sorprendente fascio di luce su questa attività riflessiva, più ancora che su quella relazionale. Essa mostra l’altra faccia delle relazioni pubbliche e questo è un importante merito dell’opera, nel senso che il lettore – verosimilmente convinto della sovrastrutturalità simbolica e da master of
ceremonies del lavoro del relatore pubblico – si accorge invece della capillarità trasversale con cui il relatore non solo raccoglie, razionalizza e esplicita anche il dettaglio delle attività dell’organizzazione; ma conversa, discute, dialoga e negozia con i pubblici influenti – diversi per
ciascuna organizzazione – affinché quest’ultima raggiunga i propri obiettivi con maggiore efficacia.


Sarcastico, paradossale, irritante, politicamente scorretto; ma graffiante e intrigante a sufficienza per attirare attenzione, sorpresa e curiosità, questo lavoro racconta l’impatto che le attività delle organizzazioni e dei loro protagonisti, raccontati dai relatori pubblici, hanno sull’agenda sociale, culturale ed economica del paese. La lettura di D’Anselmi suggerisce anche una seconda
riflessione, relativa all’analisi delle competenze specifiche ritenute necessarie per svolgere con efficacia il lavoro del relatore pubblico.
Se è vero che l’organizzazione si racconta per soddisfare le aspettative dei suoi pubblici influenti – aspettative che si manifestano oggi con pressioni sempre più esplicite – ne consegue che non è più sufficiente per il relatore pubblico limitarsi a raccontare intenzioni e comportamenti, ma che fra i suoi compiti rientra anche l’interpretazione delle crescenti aspettative di quei pubblici con cui è chiamato a dialogare, per consentire all’organizzazione di migliorare la qualità delle sue decisioni prima che queste vengano assunte, tenendo in conto, ove possibile, di almeno alcune di quelle aspettative.


Questa fase di, sia pur parziale, inclusione produce anche un effetto accelerativo sull’attuazione, poiché riduce l’impatto paralizzante della sempre più diffusa ostruzione dei pubblici influenti e, se non altro per questo, migliora la qualità stessa della decisione. Infatti, è possibile sostenere ragionevolmente che il miglioramento della qualità dei processi decisionali e la velocità di attuazione delle decisioni, rappresentino oggi la sfida più importante per qualsiasi leadership organizzativa (6).


Tutto questo richiede al relatore pubblico di acquisire competenze specifiche nell’ascolto scomposto nelle tre fasi di raccolta, comprensione e interpretazione), nella ricerca sociale e di mercato, nonché nell’analisi delle politiche (private, pubbliche e sociali), e questo emerge chiaramente dalla lettura dell’ultimo capitolo del libro, allusivamente intitolato «La ricchezza delle nozioni». In questa prospettiva, il ruolo riflessivo si differenzia, ma non si contraddice, con quello tradizionalmente relazionale e comunicativo, con il quale anzi si integra a monte, contribuendo in tal modo all’attuazione di quella nuova cornice globale di approccio alle relazioni pubbliche – il paradigma dei principi generici e delle applicazioni specifiche – che molti studiosi hanno in questi ultimi anni concettualizzato e che trova le sue fondamenta nel quarto modello di Grunig, quello della comunicazione a due vie e tendenzialmente simmetrica (7), in applicazione del quale l’organizzazione ascolta i suoi pubblici influenti per cambiare e non solo per comunicare meglio.


Infatti, nel corso del XX secolo le relazioni pubbliche hanno adottato in prevalenza il modello della persuasione scientifica e dell’ingegneria del consenso, elaborato negli anni venti dal nipote di Sigmund Freud, Edward Bernays (8), ritenuto una delle cento personalità più influenti di quel secolo (9). Per Bernays, gli interlocutori sono ascoltati dall’organizzazione, prima e dopo l’atto comunicativo, per migliorare la qualità persuasiva della comunicazione.
È un modello che ha sicuramente contribuito in tutto il mondo occidentale (e non solo in quello) alla crescita e alla diffusione del modello sociale basato sui valori dell’individuo, dei consumi, dell’american way of life, producendo anche molteplici conseguenze non desiderabili.


In questi primi anni del XXI secolo, la rivoluzione tecnologica con le sue implicazioni relazionali e comunicative che alimentano e stimolano la globalizzazione, la diversità e il protagonismo di ogni soggetto sociale, economico e politico, obbliga tutte le leadership organizzative a sviluppare e tentare di governare sistemi di relazione con i loro pubblici influenti che le aiutino a consolidare e
accrescere la propria licenza di operare. Funzione riflessiva delle relazioni pubbliche, competenze di analisi delle politiche e cultura dell’attuazione sono elementi portanti di tali leadership organizzative, ecco il perché della vertiginosa crescita della professione delle relazioni pubbliche
e dell’importante valore aggiunto di questo lavoro di Paolo D’Anselmi.


1. Questa dizione consente di superare tutte le diatribe (sia accademiche che commerciali, sovente fra loro integrate) intorno all’impiego di termini come immagine, identità, reputazione, e di indicare la vera ragione per cui l’organizzazione si racconta. Essendo per definizione l’organizzazione un insieme di sistemi di relazione che interagisce in continuazione con altri sistemi di relazione per vivere, la licenza di operare si valuta integrando diversi indicatori nel presupposto che spetta ai pubblici influenti concederla e all’organizzazione di rinnovarla giorno per giorno, contribuendo a determinare uno dei suoi maggiori valori intangibili e vantaggi competitivi.
2. www.instituteforpr.org/research_single/how_big_is_public_relations.
3. Governare le relazioni, Toni Muzi Falconi, Il Sole 24 ore 2004, pp. 23-53.
4. Prima Comunicazione- numero di Dicembre 2007- supplemento Uomini e Comunicazione.
5. www.cardiff.ac.uk
6. www.ferpi.it/news_leggi.asp?ID=44351.
7. www.ferpi.it/libro_recensione.asp?Data=07/01/2003.
8. www.prmuseum.com/bernays/bernays_1915.html.
9. Life Magazine – numero speciale che celebra l’anno 2000.


Toni Muzi Falconi



In allegato la Prefazione del libro di Aldo Bonomi
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