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Cittadini preda dell'opinione pubblicata

02/10/2008

Toni Muzi Falconi commenta l'editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di giovedì 2 ottobre che attribuisce alla categoria dei giornalisti una colpa (quella di formare le opinioni creando i fatti) che abitualmente viene dai più, e soprattutto dagli stessi giornalisti, attribuita ai relatori pubblici.

La suggestione al posto dei fatti
di Piero Ostellino


Nelle considerazioni sulla formazione originaria delle lingue — che ci sono pervenute solo grazie agli appunti dei suoi studenti — Adam Smith distingueva già nel Settecento tre tecniche diverse di comunicazione. I «discorsi narrativi», che esigono obbiettività; le «argomentazioni didattiche», che spiegano causa e effetto; le «esposizioni oratorie», che vogliono suscitare emozioni. Queste ultime sono la tecnica di comunicazione giornalistica tanto diffusa, da noi, da essere diventata oggetto di giurisprudenza.


I fatti. Il primo agosto 2005, in una dichiarazione al Corriere della Sera — che si limita a riprenderla letteralmente — il senatore Luigi Grillo dice: «Ho appreso dalla stampa che esiste a Milano un centro che si avvale di un’apparecchiatura per le intercettazioni messa a punto da Telecom Italia». Il presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, querela il senatore in quanto — pur attribuendo alla stampa la fonte della notizia — «reitera l’informazione difforme al vero, approfondendone il contenuto lesivo».


Ma il Procuratore della Repubblica, Fabio Napoleone, chiede al giudice per le indagini preliminari di «disporre l’archiviazione del procedimento», perché: «La notizia dell’esistenza di una centrale, interna a Telecom Italia, dedita a intercettare illegalmente numerosissime persone particolarmente impegnate nei settori politici, finanziari e sociali, pur non sorretta da accertamenti giudiziari, risulta essere stata diffusa dai media in modo così capillare e reiterato da generare in tutta l’opinione pubblica il convincimento della sua veridicità al punto da coinvolgere in simile suggestione collettiva anche molti settori delle istituzioni».


A scanso di maliziose interpretazioni, premetto che Marco Tronchetti Provera è uno degli editori del Corriere della Sera e anche un mio amico. Aggiungo, inoltre, che la mia regola professionale è di attenermi sempre, in queste circostanze — ne siano o meno coinvolte persone di mia conoscenza — al proverbio inglese secondo il quale «i gentiluomini parlano di princìpi; la servitù delle persone».
Questo, dunque, è un commento sui «princìpi», non sulle «persone».


A me pare che la motivazione del Procuratore della Repubblica possa provocare molte conseguenze, non tanto perché assolve il senatore Grillo — il quale, probabilmente, aveva parlato in buona fede — quanto perché crea un precedente. Essa, infatti, non può che registrare il principio che — se la diffondono tutti — non è il fatto che crea la notizia, ma è la notizia che crea il fatto, anche se il fatto di cui si parla non è vero. Qualcosa del genere era già accaduto ai tempi del processo e della relativa condanna della Juventus. Chi lo aveva promosso aveva detto testualmente che «la sentenza rispondeva a un diffuso sentimento popolare». Come dire che i processi, da noi, non si fanno nelle aule di tribunale, ma sui giornali e al Bar Sport.


Sull’argomento, garantisti e giustizialisti, innocentisti e colpevolisti «a prescindere», si sono divisi.
Personalmente, più che un problema di civiltà del diritto, a me pare sia una questione di civiltà tout court, e riguardi un certo modo di fare questo nostro mestiere. Ciò che Adam Smith chiama «esposizioni oratorie» per suscitare emozioni o, peggio, aggiungo io, per scandalismo. Insomma, un giornalismo che rischia di non essere più giornalismo, ma di diventare killeraggio.
E se, allora, noi tutti, giornalisti, cronisti, redattori giudiziari, direttori, editori, ci dessimo una regolata e ci ricordassimo almeno la norma, non dico deontologica, ma di marketing che un consumatore lo puoi fregare una volta, ma non puoi fregare tutti i consumatori tutte le volte? In definitiva, che si vendono più copie raccontando come stanno le cose piuttosto che balle?


tratto dal Corriere della Sera del 2 ottobre 2008



Nel 1961, ben 47 anni fa, lo storico americano Daniel Boorstin pubblicava un intrigante pamphlet ‘The image: a guide to pseudo-events in America’ (anche noto come ‘The Image: what’s happened to the American Dream?’ ), nel quale spiegava con dovizia di argomenti convincenti come i cittadini americani fossero preda dell’opinione pubblicata, soprattutto indotti dalla crescente moltiplicazione di pseudo-eventi promossi da organizzazioni di ogni genere al fine di attirare l’attenzione dei media.
Lo pseudo-evento crea la notizia, la notizia crea l’opinione e contribuisce a determinare quella che viene considerata la realtà.


Non c’è molto di nuovo in quel che Ostellino scrive sul Corriere di Mercoledì 2 Ottobre, salvo la motivazione addotta dal Procuratore della Repubblica.


Certo, fa una certa impressione leggere sulla prima pagina del più diffuso e autorevole quotidiano nazionale un ex direttore responsabile di quel giornale che attribuisce alla categoria dei giornalisti una colpa (quella di formare le opinioni creando i fatti) che abitualmente viene dai più, e soprattutto dagli stessi giornalisti, attribuita ai relatori pubblici.


Del resto, la rivelazione di inizio anno proveniente dall’Università britannica di Cardiff che quasi l’80% dei contenuti pubblicati dai giornali di qualità di quel Paese è di fonte ‘relazioni pubbliche’, la dice lunga sulla crescente contaminazione di interessi del giornalismo contemporaneo con l’opinione pubblicata.


Toni Muzi Falconi
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