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Come si parla in tempi di crisi

21/08/2011

La politica non riesce a parlare alla gente in modo efficace. La manovra economica di metà agosto ne è solo l'ultimo esempio. Creare le condizioni per uscire dalla crisi dovrà significare anche trovare un modo diverso di parlare della crisi stessa e delle cose da fare. La riflessione di _Mario Rodriguez._

di Mario Rodriguez
In questi giorni il prepotente affiorare dei fondamentali dell’economia e della tenuta dei conti degli stati sembra portare in secondo piano se non addirittura rendere pleonastici i problemi della comunicazione, cioè di come parlare delle cose che accadono, del frame nel quale inquadrare le metafore che danno senso alle cose che si dovranno fare, alle argomentazioni che motiveranno i comportamenti che dovranno essere adottati. Eppure, proprio in queste ore, *la comunicazione, cioè i vocabolari e le metafore che si usano, come si parla delle cose e come si fanno cose con le parole, appare cruciale. *
Creare le condizioni per uscire dalla crisi dovrà significare anche trovare un modo diverso di parlare della crisi stessa e delle cose da fare. Un modo di raccontare le cose capace di convincere le persone chiamate a modificare i propri comportamenti e di essere adottato dalla maggioranza degli italiani per un periodo di tempo non breve. Invece di sviluppare un ragionamento che ispiri fiducia, il discorso sulla crisi – anche quello dei leader dell’opposizione – è ancora spezzettato in battute e frasi polemiche.Uno dei tanti esempi che si potrebbero avanzare è quello della questione dei costi della politica e dell’accorpamento dei piccoli comuni e di alcune province.
L’aver accettato (o subìto) il collegamento tra questioni della casta e organizzazione delle istituzioni di rappresentanza ha significato avvitarsi in una spirale che, di fatto, alimenta l’antipolitica cioè un giudizio sommario che coinvolge tutti gli attori politici, virtuosi o meno. Così quanto si fa per arginare una falla di fatto l’alimenta. E, cosa più grave, non si trova un argine ragionevole: perché 1.000 e non 15.000 abitanti? Perché 26 o 35 e non 50 province? Se si accetta di identificare casta e istituzioni rappresentative senza entrare nel merito della loro funzione, della loro capacità di essere utili alle persone (individui e comunità) e cioè della qualità della democrazia, è ragionevole prevedere che ci si avviti in una spirale senza fine. E poi sono questi i costi veri della “casta”? E non si dica che l’argomento è diventato di attualità improvvisamente e che per questo ha trovato i politici impreparati, senza proposte. Si farebbe la figura di Tremonti con la crisi economica!
Anche in queste settimane il problema della “casta” poteva essere posto in maniera diversa. Ne dovevano parlare con un vocabolario nuovo soprattutto coloro che condividono molte delle critiche che vengono avanzate alla trasformazione del personale politico in un gruppo sociale animato soprattutto dal desiderio di tutelarsi e difendere le proprie prerogative. Se ne sarebbe dovuto parlare prima di tutto molto prima intercettando e combattendo i luoghi comuni poi, in modo inatteso non prevedibile inquadrando ad esempio il problema nella necessità e nella possibilità di garantire e migliorare la rappresentanza delle specificità locali (individui e comunità) adottando nuove e più efficaci forme di organizzazione, sfruttando tutte le novità tecnologiche intervenute da quando furono definiti i confini di comuni e province. Ci si sarebbe potuti fare portavoce o, come leader politici, di alcune idee guida chiare e credibili o, come amministratori locali, di un grande moto di razionalizzazione e modernizzazione che sapesse garantire voce e rappresentanza (a costi decrescenti) a comunità territoriali e tematiche sempre più critiche (i trasporti soprattutto) facendo piazza pulita di previlegi e sprechi (dove sono, se ci sono). Invece ci si è fatti schiacciare tra l’incudine dell’innegabile scivolamento del fare politica verso un potere autoreferenziale non esposto a credibili controlli terzi e il martello di una denuncia generica che coinvolge tutti e che si propone (ormai esplicitamente e apertamente) il ridimensionamento del ruolo degli “attuali” attori politici (leader e organizzazioni). Anche in questi giorni ci si sarebbe potuti interrogare su come fare buona politica attraverso la comunicazione senza pensare che se tornano in primo piano le questioni “materiali” (le si credono ancora strutture?) vanno in secondo piano o addirittura spariscono quelle legate al modo in cui se ne parla (le si credono ancora sovrastrutture?).
Perché il modo in cui si parla delle cose non è altro che il modo in cui si vivono.
Tratto da Europa del 19 agosto 2011
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