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Crisi di Reputazione: il perimetro non necessita modifiche

05/02/2025

Patrick Trancu

Il commento di Patrick Trancu, Crisis management advisor, all'articolo di Luca Poma, Crisi di reputazione: è ora di ridisegnare il perimetro del rischio?pubblicato lo scorso 27 gennaio.

 

Nel suo articolo Crisi di reputazione: è ora di ridisegnare il perimetro del rischio? Luca Poma, che personalmente stimo, sostiene sia necessario “ridisegnare in parte alcuni fondamentali della materia e della professione”. Secondo Luca una crisi esiste già nel momento in cui si manifesta una “non conformità” aziendale, anche se non ha ancora generato eco sui media o nell’infosfera digitale.

 

È una suggestione interessante ma che non mi convince. Non perché io appartenga a qualche casta “ortodossa” ma perché ogni ragionamento deve partire da basi e principi condivisi. In primis non possiamo partire da una definizione di crisi del 2011 poiché esiste oggi una definizione condivisa a livello internazionale ed è quella contenuta nelle linee guida ISO 22361:2022 Security and resilience — Crisis management — Guidelines. Consideriamo crisi “un evento o situazione anomala o straordinaria che minaccia un'organizzazione o una comunità e che richiede una risposta strategica, adattiva e tempestiva al fine di preservarne la sopravvivenza e l'integrità”.

 

La crisi per essere tale deve quindi rappresentare una minaccia esistenziale per l’individuo, l’organizzazione, la comunità o lo Stato. Le crisi reputazionali non fanno eccezione. Sono il rovescio della medaglia dei rischi aziendali – se vogliamo la loro materializzazione - tra i quali ricordo vi sono anche quelli strategici, finanziari, operativi, culturali, di compliance, tecnologici e geopolitici.

 

Nel suo ottimo libro, citato da Luca Poma nell’articolo, Daniele Chieffi scrive – a mio giudizio correttamente e anche Luca sembra essere d’accordo - che “non è il fatto in sé a innescare la crisi, bensì la percezione che gli stakeholder hanno di quel fatto” e che pertanto “è necessario agire sulla percezione” dello stesso. Non è una tesi nuova e neppure una nuova definizione di crisi poiché il concetto è da anni ampiamente condiviso in letteratura. Nel 1993 Patrick Lagadec scriveva «Per scatenare una crisi non è necessario avere un evento immediato, tangibile e chiaro. È sufficiente che venga percepito come tale dagli attori interni o esterni»[1]  

 

Potremmo dire, traducendo dall’inglese, che la crisi è nell’occhio di chi la guarda. In altre parole, è sufficiente che alcuni degli stakeholder abbiamo la percezione che l’organizzazione si trovi in crisi per decretare il fatto che lo è. Come giustamente scrive Daniele è pertanto su quella percezione che si deve intervenire. Tuttavia, a mio giudizio, non si tratta affatto di un ribaltamento della prospettiva. Se infatti la gestione della reputazione è un’attività organizzazione centrica, la gestione di crisi è sempre stata una disciplina stakeholder centrica. È questa la fondamentale differenza tra le due.

 

Non è per altro neanche una questione di abbandonare quella che Daniele chiama “visione meccanicistica della crisi come relazione causa-effetto”, una visione applicabile alle crisi del XX secolo, ma piuttosto di comprendere che oggi, in un mondo complesso le crisi non possono essere ricondotte a relazioni causa-effetto lineari e che il fulcro del problema non è più l’evento. Il problema è rappresentato dalla fragilità delle strutture fondamentali del nostro sistema[2] e tra queste dobbiamo includere anche l’infosfera. Quest’ultima non solo amplificatrice di percezioni, false o corrette che siano ma di fatto “dimensione” nella quale avviene la granulare manipolazione dell’individuo e della sua capacità di comprendere quello che gli sta accadendo intorno.

 

Tornando all’articolo di Luca Poma l’autore auspica un ampliamento del confine “del nostro sguardo quando parliamo di crisi reputazionali” argomentando che possiamo ad esempio chiamare “crisi” – anche se non pubblicamente deflagrata - il clima aziendale tossico di una società di consulenza. Qui è necessario fermarsi per una riflessione. Innanzitutto, se è vero che la crisi è “negli occhi” degli stakeholder e che i dipendenti sono i primi stakeholder di qualsiasi organizzazione allora se essi percepiscono che la loro organizzazione è in crisi a causa del clima, tale percezione è realtà. Non c’è bisogno che la stessa deflagri pubblicamente, si tratta semplicemente della fase “privata” della crisi stessa. Tuttavia, allo stesso tempo, potremmo considerare questa situazione, così come altre, come un prodromo o segnale debole della crisi. Se nessuno lo coglie e interviene la crisi è destinata a deflagrare ma se vi è un intervento allora la stessa non si materializza. In conclusione, entrambi i punti di vista possono co-esistere.

 

L’idea della mappatura delle “non conformità”, concetto rigido trasferito dall’ambito del sistema di gestione della qualità (ISO 9001 Nonconformity) a quello della gestione di crisi proposto da Luca Poma non mi convince. Perché? Per diversi motivi.

 

Il primo è che il principio di “non conformità (NC)” si verifica quando un prodotto, un servizio, un processo o un'operazione aziendale non soddisfa i requisiti. Definire i requisiti di un prodotto o di un processo è relativamente semplice. Ma nello specifico, in base a quali criteri si definiscono ad esempio i requisiti di non conformità per una “cultura aziendale”? In secondo luogo, ci sono diversi livelli o gradi di non-conformità, non tutti puntano nella potenziale direzione della crisi. In terza battuta il concetto stesso di “non conformità”, o per usare un altro termine di “anomalia”, è già ampiamente contemplato e integrato nella fase di preparazione alla gestione di crisi. Questo sia sotto il profilo degli audit che vengono regolarmente condotti da chi in azienda si occupa di questa disciplina (o come consulente esterno); sia nelle aziende più evolute dove l’abbattimento dei silos organizzativi porta alla costituzione di gruppi interdisciplinari interni il cui compito è di monitorare costantemente e in senso ampio l’ambiente nel quale l’azienda opera; fino ad arrivare a organizzazioni ancora più sofisticate che mettono l’anticipazione strategica al centro del loro operato.

 

In conclusione, l’attuale disciplina della gestione di crisi contempla già la presa in considerazione di “anomalie” tant’è che molte aziende scelgono di includerle nei loro processi di gestione di crisi proprio in una logica di anticipazione. Nelle aziende preparate e “sensibili alla crisi”, i canali di “risalita” delle informazioni inerenti le anomalie sono solitamente ben codificati. Perché come diceva Henry Kissinger “Un problema ignorato è una crisi invitata.

 

Nota: Nessuna parte di questo testo è stata scritta o rivisita utilizzando strumenti di IA.


[1] Patrick Lagadec, “Preventing chaos in a crisis”, McGraw Hill Book Company Europe, 1993.

[2] Patrick Trancu, Patrick Lagadec in “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro”, Franco Angeli, 2021.

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