Giuseppe de Lucia, Consigliere Nazionale FERPI
Una riflessione con Salvatore Ricco, autore del libro La comunicazione d'impresa nel mondo che cambia. Perché il ruolo dei comunicatori sarà sempre più strategico per capire come la comunicazione evolve nell’era dell’AI, tra crisi permanenti, nuove competenze e centralità dell’umano.
Nel libro racconti come la policrisi non sia più un'eccezione, ma lo “sfondo permanente” della comunicazione contemporanea. Cosa significa, in questi casi, governare la comunicazione? Come si costruisce lucidità in un contesto che non concede tregue?
A mio avviso, il primo punto da considerare è che, oggi più che mai, governare la comunicazione non dipende solo da chi se ne occupa per mestiere, ma anche dalla sensibilità e dallo stimolo dell’intera organizzazione, in particolare del management. Penso ad esempio che una buona comunicazione interna non derivi soltanto dagli input e dal numero di iniziative messe in campo dalla funzione dedicata, ma anche dalla capacità e dalla predisposizione di tutti i leader a comunicare con frequenza e coerenza con i propri team.
Quanto alla “policrisi”, per affrontare l’attuale contesto penso sia necessario, anche se non sufficiente, che le organizzazioni abbiano una governance della comunicazione: che sappiano chi deve fare cosa, come deve farlo, e che abbiano processi chiari e un adeguato livello di preparazione (mappatura dei rischi, piani di crisi, simulazioni, media training, ecc.). Ogni crisi, naturalmente, fa storia a sé: c’è sempre un elemento di imprevedibilità e la sua risoluzione positiva dipende da moltissime variabili. Certamente, però, avere un mindset aziendale orientato alla gestione della crisi può fare la differenza, così come seguire alcune regole di base quando arriva l’onda: forte coordinamento tra le persone chiave, reperimento rapido e continuo delle informazioni necessarie, velocità di reazione, continuità della comunicazione, trasparenza ed empatia. Per noi comunicatori, mantenere una certa “terzietà” di fronte a una crisi aiuta a conservare lucidità, così come rimanere sempre fedeli ai nostri principi e ai nostri valori.
Siamo ancora lontani dal CCO che siede nel board dell’azienda. È un tema culturale? Perché, sulla base della tua esperienza, la comunicazione è efficace solo quando siede “al piano di sopra”?
Ritengo che per molto tempo sia esistita una resistenza culturale, sia perché si tratta di un ruolo relativamente giovane, sia per via di un pregiudizio inconsapevole che per anni lo ha relegato in secondo piano. Oggi mi sembra che le cose stiano cambiando e che i tempi siano più maturi: lo dimostrano i vari manager con un background nella comunicazione che siedono in Consigli di Amministrazione, anche in aziende quotate.
Diverso è il tema della collocazione gerarchica del CCO: dal mio punto di vista, è più efficace quando riporta direttamente al CEO o al capo azienda, così da essere coinvolto tempestivamente sui temi rilevanti e riconosciuto come interlocutore autorevole dal resto del management. Ogni caso è diverso e contano molto le capacità personali, ma la collocazione gerarchica può certamente fare la differenza.
Ripeti spesso nel libro che “il cuore della comunicazione resterà umano”. Qual è, secondo te, l’elemento umano che nessuna AI potrà replicare? E come si difende questo spazio mentre tutto accelera?
La capacità di stabilire, mantenere e consolidare relazioni – sia dentro sia fuori le organizzazioni, sia all’interno sia all’esterno dei team di lavoro – resterà sempre un fattore cruciale e insostituibile nella nostra professione. Nessuna AI potrà replicarla. Lo stesso vale per altre competenze tipiche del comunicatore: il senso della notizia, la sensibilità istituzionale, l’originalità.
Nel libro ripercorri tre cambiamenti epocali: PC, Internet, social network/smartphone. Quale di queste rivoluzioni ha riscritto il DNA del nostro mestiere?
L’avvento di Internet ha reso la comunicazione molto più veloce e ha spinto aziende e organizzazioni a diventare a loro volta produttrici di contenuti, dialogando direttamente con i propri stakeholder. Questa rivoluzione è stata poi amplificata dall’esplosione dei social media e della comunicazione via smartphone, che ha moltiplicato esponenzialmente le interazioni, ormai sostanzialmente in tempo reale, cambiando anche i rapporti di forza tra grandi organizzazioni e singoli individui o gruppi. Tutto questo ha reso il nostro mestiere più veloce, complesso e rischioso, ma anche più affascinante. Sarà molto interessante osservare l’evoluzione dell’era dell’AI, nella quale, paradossalmente e fortunatamente, tornerà a contare molto l’autorevolezza delle fonti, un valore un po’ offuscato durante l’era dei social media che ha favorito la proliferazione delle fake news.
I rischi etici sono sempre più rilevanti: bias degli algoritmi, privacy, trasparenza. Qual è, secondo te, il rischio più sottovalutato dalle aziende?
Credo che nelle aziende, soprattutto quelle più strutturate, ci sia una crescente consapevolezza dei rischi legati all’AI e, più in generale, alle nuove tecnologie. Tuttavia, le aziende sono fatte di persone, e basta l’errore di un singolo per generare conseguenze importanti per l’intera organizzazione. Per questo considero fondamentali le attività di comunicazione interna e di formazione continua su questi temi, che stanno diventando centrali nella vita lavorativa di tutti.
Nel libro immagini la possibile nascita del “Chief Communication & AI Officer”. Quali caratteristiche dovrebbe avere questa figura? Più tecnologo o più comunicatore?
L’idea nasce da un report dell’Observatory on Corporate Reputation (OCR) americano, secondo cui il ruolo del Chief Communication Officer sta diventando sempre più ampio. Nella maggior parte delle aziende del ranking Fortune 1000, i cosiddetti CCO+, ovvero dei CCO che integrano anche almeno un’altra funzione tra Marketing, Sostenibilità, Public Affairs, Investor Relations o, in alcuni casi, Risorse Umane, sono ormai più numerosi dei CCO tradizionali. In questo contesto, lo studio ipotizza la nascita di un Chief Communication & AI Officer, che accompagni l’introduzione su larga scala dell’AI nelle aziende. La tesi è che possa trattarsi più di un comunicatore che di un tecnico. Tuttavia, è abbastanza prematuro pensare che questa figura possa nascere davvero. Quel che è certo, però, è che già oggi in diverse organizzazioni la funzione comunicazione sta avendo un ruolo nell’introduzione dell’AI, naturalmente in coordinamento con le funzioni più tecniche.
Qual è, secondo te, l’errore più grande che un comunicatore può fare nell’era dell’AI: fidarsi troppo della tecnologia o troppo poco?
Credo siano entrambi rischi reali. Un approccio “negazionista”, che resiste al cambiamento e utilizza l’AI il meno possibile, è controproducente. Ma anche un eccesso di fiducia può essere pericoloso, perché persino i modelli più avanzati possono incorrere in “allucinazioni” e commettere errori significativi. La mia convinzione, come emerge dal libro, è che il cambiamento non si possa fermare: l’AI rappresenta un’opportunità per migliorare ulteriormente il nostro lavoro, ma richiede un presidio attento e consapevole.