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Etica e verità: la lectio di Navarro-Valls

28/02/2006

Giancarlo Panico segnala la lectio che Joaqin Navarro-Valls ha tenuto in occasione del conferimento della laurea «honoris causa» in Scienze della Comunicazione da parte dell'Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Venerdì scorso Joaquìn Navarro-Valls, in occasione del conferimento della laurea «honoris causa» in Scienze della Comunicazione da parte dell'Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha pronunciato una 'lectio' su etica e verità. Rivolta principalmente alla comunità professionale dei giornalisti, è ricca di spunti interessanti anche per i comunicatori e i relatori pubblici. Più che altro perché a mio parere è un chiaro segnale che oggi, ancor più del passato, è necessario farsi promotori di un tavolo comune tra tutti le associazioni professionali per l'elaborazione di un documento unico e condiviso sull'etica nella comunicazione.Può essere un'ulteriore contributo alla riflessione avviata da Toni Muzi Falconi sulle responsabilità nelle relazioni con il sistema dei media. La cerimonia si è svolta contestualmente alla consegna degli attestati del Master in giornalismo attivato presso il Suor Orsola' e ha registrato, oltre il Rettore Francesco De Sanctis, affiancato dal preside di Scienze della Formazione, Lucio D'Alessandro, la partecipazione anche del direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, direttore del master di giornalismo del Suor Orsola, e dai presidi delle facoltà di Lettere e Giurisprudenza, Piero Craveri e Franco Fichera. Ne riproponiamo il testo integrale.Giancarlo Panico


Il vincolo etico della veritàdi Joaquìn Navarro-VallsLa bibliografia pertinente al giornalismo è oggi straordinariamente vasta. E aumenta ogni giorno sia a livello accademico che nella saggistica extra accademica. Ma una ricerca nelle grandi biblioteche universitarie oppure pubbliche offre oggi un risultato sorprendente: il maggior numero di pubblicazioni sulla comunicazione si riferisce a temi che direttamente oppure indirettamente hanno a che vedere con l'etica del giornalismo, nelle sue diverse dimensioni di giornalismo scritto, televisivo, radiofonico e nel campo delle diverse specializzazioni della diffusione di informazioni e commenti in internet. Il secondo aspetto che emerge nella stessa ricerca è il fatto che una grande parte di quella bibliografia ha come autori giornalisti oppure studiosi del giornalismo, mentre il successivo raggruppamento di autori, in termini numerici, è costituito da specialisti che cercano di elaborare codici etici destinati ad associazioni professionali e grandi aziende dedicate all'elaborazione ed alla diffusione delle notizie.Questo risultato è di per sé eloquente. E lo è già anche prima di addentrarsi nelle analisi dei testi contenuti in questa bibliografia. Perché sembra significare che dal punto di vista della sua pratica, l'attività giornalistica pone oggi dei problemi etici di non semplice soluzione. Perché la considerazione etica è diventata la prima fonte di bibliografia riguardo alla professione giornalistica? E perché sono in gran parte studiosi e addirittura professionisti della comunicazione quelli che giudicano, frequentemente in toni critici, la dimensione etica della odierna attività giornalistica? Mi sembra che una prima risposta a queste due domande abbia a che fare con una pressante richiesta sia da parte degli operatori dell'industria mediatica sia dei fruitori di essa. I campi dove questa richiesta si manifesta sono molti. Per fare soltanto un esempio, si potrebbero menzionare i molti problemi che l'invadenza commerciale genera nel settore mediatico. Si ha la percezione che la commercializzazione dell'industria della notizia, cioè l'invasione delle «ragioni del mercato» nella raccolta e diffusione di notizie apra un grande spazio di rischio etico nel campo del giornalismo.È evidente che una sana economia è anche garanzia di indipendenza e di autonomia per l'industria dell'informazione. Ma il rischio appare in questo campo quando le «ragioni del mercato» si fanno non soltanto criterio di conduzione aziendale ma idea ispiratrice di lavoro nelle redazioni dei giornali e negli spazi informativi della televisione. Vale a dire, nei casi dove si stabilisce il primato assoluto del mercato negli ambiti della selezione, dell'elaborazione e della diffusione della notizia. Questa e altre realtà del giornalismo oggi pongono delle sfide etiche. Sfide di cui l'industria della comunicazione è ben cosciente. Ed in questa ottica si iscrivono i tentativi di trovare, a livello istituzionale, una risposta per superarle. Una via è quella della catalogazione deontologica.Praticamente tutte le professioni socialmente configurate, si dotano di «codici etici» che regolano alcuni aspetti della pratica di quella professione. Anche molti organi di stampa, radio o televisione adottano dei codici etici vincolanti per giornalisti che in essi lavorano. Normalmente si tratta di un elenco di proposizioni normative che regolano l'attività del giornalista sia nella raccolta d'informazioni che nella sua elaborazione fino al momento che la notizia appare stampata sul giornale. La ragione ultima che spesso viene menzionata in questi documenti è la tutela dell'autorevolezza, indipendenza e prestigio del giornale in quanto mezzo di trasmissione di notizie. Così è scritto, per esempio, nel «Handbook of values and practices» del «New York Times». Con una estensione di una trentina di pagine ed un articolato di 154 norme questo documento impone a tutti i redattori del giornale una serie di regole di condotta che spaziano dal divieto di ricevere qualche dono da individui o aziende alla proibizione di partecipare in manifestazioni pubbliche di carattere politico o sindacale.Eppure nemmeno il «New York Times» è sfuggito negli ultimi anni a severi casi di violazioni etiche. In un livello completamento diverso, lo stesso giornale ha dovuto stampare nel 2004 - ultimo anno di cui ho dati ufficiali - 3.200 correzioni a errori contenuti in informazioni precedentemente pubblicate. La normativa deontologica sembra insufficiente come risposta alle domande di cui accennavo prima. Cercare una risposta a quelle domande ci porta necessariamente al di fuori dell'ambito delle scienze sociali in cui il giornalismo trova la sua collocazione accademica. La domanda etica, in quanto interrogativo sul dovere si pone in un ambito superiore e diverso a quello delle scienze sociali poiché segue un itinerario metodologico diverso. Nella dinamica mediatica, così come in altri campi dell'attività umana, si assiste oggi allo stesso fenomeno: i valori etici hanno perso sia la loro evidenza sia la loro istanza vincolante.Non risulta chiara e meno ancora evidente la dimensione morale. Si assiste ad una opacità etica, un crepuscolo dove le ragioni della morale sembrano apparire in conflitto permanente con le ragioni della libertà e, quindi, con quelle dell'autorealizzazione personale. Inoltre, dicevo, i valori etici hanno anche perso la loro istanza vincolante. Quei valori hanno, sì, quasi intatta la loro attrazione, la loro capacità di entusiasmare ed addirittura di infervorare. Ma il fatto però che essi obblighino anche me e pure mi costringano e mi impegnino a conformare la mia attività professionale anche quando hanno effetti per me svantaggiosi, quando apparentemente mettono in pericolo la mia libertà e il mio cammino verso il successo, ciò semplicemente non sembra spesso «ragionevole». Ho la convinzione che queste difficoltà nell'assumere il vincolo etico ha una sua origine principale, cioè una percezione ambigua del rapporto esistenziale con il concetto di verità. Nel dibattito culturale odierno il concetto stesso di verità appare molto oscurato. Infatti la discussione sulla verità è scomparsa come tema e anche come oggetto del ragionare umano. Culturalmente, il confronto sulla verità sembra decisamente antimoderno.Ma questa caratteristica non toglie a questo concetto il carattere di tema inevitabile soprattutto per chi ha scelto come proprio itinerario professionale quello della trasmissione di informazioni. E proprio su questo rapporto esistenziale, personale, di chi fa giornalismo con il concetto di verità vorrei proporre qualche considerazione che dovrà avere un necessario e deliberato sapore antropologico. Quando confrontandosi con il cosmo fisico e lo spazio Pascal scrive «Non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero» sta ratificando il fatto che proprio nella capacità di conoscere, nell'atto stesso della conoscenza, l'uomo scopre la propria diversità nei riguardi di quanto di non umano l'uomo trova nel mondo. E attraverso di quell'atto di conoscenza lui si libera, si stacca dal cosmo fisico e degli oggetti ed esseri animati del mondo che costituiscono tutto il suo intorno.Quando seguendo sempre a Pascal ci viene detto che «l'uomo supera infinitamente l'uomo» afferma che l'essere umano è aperto alla verità delle cose e seguire questa verità - non creata da me ma da me riconosciuta e di cui sono testimone - mi apre la possibilità di trascendere me stesso. Per l'atto di conoscere l'uomo scopre con stupore la sua ineguaglianza con il resto degli esseri che lo circondano e nello stesso tempo inizia a camminare per una strada che lo porta ad andare oltre le richieste che gli presentano l'impulso dell'autoconservazione e l'interesse individuale, tendenze ambedue che inducono a convertire tutto e tutti i strumenti, in cose, al proprio servizio. Ma l'esercizio del pensiero che genera la conoscenza, è già il punto finale dell'autotrascendersi umano? Se così fosse, avremmo rinunciato a capire il tragico lamento di Ovidio quando nella sua Metamorfosi e a nome di noi tutti afferma: «Video meliora, proboque deteriora sequor». Conoscere la verità, riconoscerla, perfino ammirarla non basta. La verità richiede dell'essere un ulteriore atto che non appartiene già all'ambito del conoscere ma del volere. L'uomo di fronte alla verità conosciuta, la sposa in un atto che può avere origine soltanto nella sua libertà. E in questo scegliere liberamente la verità riconosciuta come tale e nell'essere ad essa fedele fino alla fine, l'uomo è fedele a se stesso, cioé alla propria identità. Infatti, l'essere umano scopre che guida e governa se stesso quando, senza smettere di essere se stesso, si lascia guidare e governare dalla verità.È in questa dialettica antropologica dove si indovina il problema delle proprie identità etnica: quel «dramma personale per eccellenza» come lo ha chiamato un autore contemporaneo dove si può assistere alla più tragica delle battaglie che può l'uomo intraprendere, cioé quella di negare, con la potenza della propria libertà la verità di lui stesso riconosciuta come tale. Che succede in questo dramma con la verità e che succede con la persona - potrei anche dire, con il comunicatore - che dopo averla riconosciuta come tale in un suo atto conoscitivo con un atto della sua volontà la nega? La verità, naturalmente, rimane sempre verità. Ma chi acconsente liberamente a qualcosa che, come soggetto della conoscenza riconosce non vero, introduce liberamente in se stesso la disgregazione della propria autonomia e il principio della personale falsificazione.A partire da questa constatazione penso che si possa capire meglio il carattere normativo della verità. È normativa la verità non principalmente nella conduzione delle azioni del soggetto ma soprattutto perché e la realtà che porta l'individuo ad autogenerarsi come persona. L'itinerario che porta all'autenticità si riversa finalmente nell'atto per cui l'essere umano sceglie, volontariamente di dire un sì alla verità. Il disprezzo dunque della verità e disprezzo di se stesso. E sono padrone di me stesso nel momento in cui mi lascio governare dalla verità da me stesso conosciuta. Forse si potrebbe adesso trarre una conseguenza dal breve excursus antropologico fino a qui compiuto: la libertà, che troviamo in noi come meta da raggiunge, consiste nel fatto che noi stessi, con un atto di nostra scelta, possiamo affermare o negare proprio quella verità che noi stessi, nell'atto della nostra conoscenza, abbiamo conosciuto. Cioé non potrei affermare me stesso se non affermo con un atto di libera scelta la verità che la mai ragione ha conosciuto con un atto di conoscenza.Sarebbe adesso più che giustificato domandarsi se queste cose abbiano un qualche interesse nell'ambito delle Scienze della comunicazione e non soltanto in uno spazio accademico di antropologia filosofica. In realtà la risposta dipende dall'idea che si ha del giornalismo in quanto processo di comunicazione e del giornalista in quanto persona umana protagonista di quel processo. Un operatore della comunicazione è sempre, e anche prima dell'atto di comunicare, un testimone. Quello che si testimonia è una esperienza personale conosciuta come vera. Ma se non esiste una esperienza non esiste nemmeno la possibilità di comunicare: il profeta della esperienza che non esiste, diventa soltanto profeta di se stesso. Naturalmente queste riflessioni non sono valide soltanto nel campo della comunicazione ed hanno anche un senso in qualsiasi altra attività umana.Ma il giornalista compie una funzione del tutto singolare: ha scelto come attività professionale quella di unire la relazione con la persona a cui comunica con la sua personale relazione con la verità da lui sperimentata. E non di rado si ha l'impressione che questo nesso non sia del tutto felice. Non è per tanto sorprendente che nelle molte domande etiche poste al giornalismo sia implicita la esigenza di tornare ad una testimonianza in cui sia immanente una esperienza di verità. Senza questa esperienza la comunicazione si fa autorreferenziale, tautologica, ripetizione di slogans e frasi vuote. La differenza tra propaganda e giornalismo sta soprattutto qui. Non è, certamente, funzione del giornalismo e quindi nemmeno del giornalista sostituirsi alla scoperta della verità che ognuno è orientato a compiere nella propria esistenza. Ma mi è inevitabile ricordare in questo momento quel grande testimone che fu Socrate quando ci fa vedere che qualcun altro ci può aiutare a vedere la realtà delle cose e, in questo modo, diventare l'ostetrico della nascita in noi della verità. Forse nell'assumere questa responsabilità sta la radice del comunicare libero cui il giornalismo annovera tra le sue pretese e le sue grandezze.
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