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Internet non cambia le regole

31/08/2009

La pervasività del digitale non ha cambiato il modo di fare giornalismo. Nonostante la convergenza tra i nuovi media e quelli tradizionali per un giornalista il mezzo più importante resta il cervello...

di Anna Masera


Con Internet è cambiato tutto alla scuola di giornalismo della Columbia University fondata a New York da Joseph Pulitzer: le vecchie macchine da scrivere sono finite in un’aula museo, i corsi sono tutti multimediali.
Ma le regole del buon giornalismo sono rimaste le stesse del manuale News Reporting and Writing (alla sua l2° edizione) di Melvin Mencher, professore emerito. Se n’è aggiunta solo una, piuttosto ingombrante: padroneggiare i nuovi media.


L’analfabetismo digitale non è plausibile nel giornalista del nuovo millennio, che deve sapersi destreggiare con la costruzione di siti Web, l’uso di gadget tecnologici e software di ogni tipo.
«E’ la convergenza, bellezza» riassume il vecchio professore in una battuta all’ex alunna tornata a trovano nel venticinquennale della laurea. «Ma il mezzo più prezioso resta sempre il cervello».


E rispolvera «le regole»: 1. Farsi tante domande per capire la storia che si vuol raccontare, indipendentemente dal mezzo che si usa. 2. Occuparsi di cose che stanno a cuore, altrimenti l’indifferenza si rifletterà nel lavoro. 3. «Show, don’t tell»: non dire le cose, ma mostrarle. 4. I fatti separati dalle opinioni: cercare di mantenere un punto di vista il più obiettivo possibile per permettere ai lettori di formarsi la loro. 5. Dare sempre l’opportunità alla controparte di rispondere. 6. «Quotes up high»: far parlare gli interlocutori della storia, per darle vita e credibllità. 7. Controllare almeno due volte i fatti, i dati, i nomi. 8. Usare un linguaggio accessibile a tutti, ma essere precisi: soppesare ogni parola. 9. «Go with what you’ve got»: quando il tempo stringe, smettere di cercare e fare il meglio con quello che si ha. 10. Non affezionarsi alle parole ed essere pronti a tagliare.
Solo cosi si diventa migliori.


tratto da La Stampa del 23 agosto 2009
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