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La classe non è acqua... A proposito di TAV e di inchiostro nel latte

13/12/2005

Editoriale di Toni Muzi Falconi

Ci siamo più volte domandati perché mai la comunità dei comunicatori delle organizzazioni italiane dovesse essere, come molti di noi vorrebbero che fosse, migliore della media della nostra classe dirigente. In questi ultimi giorni, alle legittimità di questa domanda abbiamo ricevuto qualche sonante risposta.Mi riferisco ai due clamorosi casi di crisi di fiducia che hanno investito il settore pubblico e parapubblico con la vicenda della TAV di Valle Susa, e il settore privato con la questione Nestlè -Tetrapak. Il nesso fra i due casi ci propone in modo netto la differenza fra due concetti fondamentali: la gestione della crisi come attività permanente di una organizzazione (crisis management) e la comunicazione della crisi quando scoppia (crisis communication).
Nel caso TAV - il cui manifestarsi era largamente prevedibile e previsto, sia nelle forme che nei tempi (Olimpiadi in arrivo...) - abbiamo assistito ad una macroscopica assenza di qualità e competenza nella gestione della crisi: basti ricordare che, sul versante francese, già dal 1996 (praticamente dieci anni fa!) le autorità avevano avviato un intenso e coordinato sistema di relazioni con le popolazioni locali affidandone la comunicazione a professionisti delle relazioni pubbliche (e infatti le tante criticità, che pur ci sono state e ci sono ancora, non hanno raggiunto neppure lontanamente il livello delle nostre di questi tempi); mentre da noi la gestione della comunicazione è stata colta alla sprovvista, attuata senza alcun percepibile senso di direzione e di coerenza da un insieme variegato e scoordinato di soggetti (enti locali, governo, società, comitati, società appaltatrici, partiti...).
Al punto che il povero Berlusconi, che inizialmente si era chiamato fuori, ha dovuto affidarla in extremis nella mani di quel Gianni Letta che, giova ricordarlo, è stato per parecchi anni nostro collega alla guida della relazioni istituzionali della Fininvest!E questo è accaduto per mille motivi, ma sicuramente anche perchè la comunicazione non pare essere stata finora ritenuta dai responsabili politici e amministrativi consustanziale e strategica per il raggiungimento di un obiettivi perseguito, ma soltanto come strumentale, talvolta promozionale e, nel caso specifico, soltanto reattiva.
Una cara collega che se ne intende, commentando la vicenda, mi ha fatto l'altro giorno una osservazione da meditare: i politici, anche i migliori fra loro, sono convinti che la comunicazione con la gente sia affare loro perchè investiti del consenso popolare al momento del voto. Questo, indipendentemente dal ruolo che rivestono e, nella migliore delle ipotesi, si fanno assistere da persone la cui competenza comunicativa è soltanto una variabile secondaria rispetto alla cifra assoluta del rapporto rappresentata  da una cieca e assoluta obbedienza e fedeltà. Al contrario e a loro volta, i responsabili delle amministrazioni, di fronte all'emergenza non si fidano di professionisti della comunicazione il cui ruolo non è ancora consolidato e si affidano più volentieri, anche per la comunicazione, ai legali e ai tecnici. Insomma... si parano il culo e non perseguono l'interesse pubblico.
Sulla questione TAV segnalo ai lettori interessati un interessantissimo saggio, uscito sulla rivista Micro-Macro del Mulino un anno fa, in cui il nostro collega e socio Omer Pignatti razionalizza ben quattro anni di lavoro compiuto lungo la tratta Milano-Napoli. Una esperienza di rilevante interesse professionale, la cui conclusione è che non è possibile gestire con efficacia la comunicazione di una grande opera se l'operatore principale non si carica pienamente e responsabilmente del processo di comunicazione con i cittadini, delegando invece tali processi ad altri, nel caso specifico qegli enti locali le cui priorità sono necessariamente diverse, e che rappresentano soltanto uno, per quanto importantissimo, dei diversi stakeholder.
Nel caso Nestlè-Tetrapak, al contrario, la crisi non era né prevista né prevedibile e l'emergenza comunicativa è scattata quando il procuratore di Ascoli Piceno ha ordinato il sequestro su tutto il territorio nazionale, con la conseguenza che la comunicazione è stata inevitabilmente convulsa e scoordinata, rendendo per l'ennesima volta evidente la contraddizione che emerge quando si decide, più o meno consapevolmente, di perseguire il duplice obiettivo di rassicurare il consumatore e nel limitare il danno economico a breve, senza rendersi conto (ma l'esperienza dovrebbe insegnare... o questo non succede proprio mai?) che la rassicurazione del consumatore ha una intrinseca natura emotiva che non si concilia con l'esigenza di far quadrare il bilancio a fine trimestre, mentre si concilia assai meglio con il bilancio a medio, quando la reputazione di una azienda coraggiosa si rafforza e si consolida.
E, a questo proposito, vi segnalo con forza l'eccellente saggio del nostro Luigi Norsa sulla 'paura della crisi' pubblicato nel primo numero di Contatti, la prima rivista scientifica di relazioni pubbliche edita dal Corso di laurea in relazioni pubbliche dell'Università di Udine ove tanti nostri colleghi insegnano, e che è stato recensito la scorsa settimana.
Un saggio che ognuno di noi dovrebbe tenere sempre sul comodino, sia che si trovi ad operare in fase (permanente) di gestione della crisi che in quella (temporanea) di comunicazione della crisi. Un saggio in cui si afferma, tra l'altro, che la comunicazione di crisi efficace deve ascoltare, rispettare ed essere sintonica con le ansie del consumatore.Qualcuno, e anche con piena legittimità, può certo sostenere che dell'incidente le due aziende erano consapevoli da molte settimane e che avrebbero potuto decidere subito il ritiro del prodotto. Ma nessuno, neppure il comunicatore più influente, può imporre al vertice di una impresa una mossa del genere se le autorità e le norme non lo esigono.
C'è chi lo ha fatto, come ben fece 23 anni fa la Johnson & Johnson con il Tylenol, contravvenendo addirittura alle stesse raccomandazioni delle autorità... E l'azienda ancora oggi beneficia della saggezza di quella decisione sul piano di reputazione, di quota di mercato e di profitti... Ma si trattò di una decisione del tutto volontaria, peraltro in anni in cui la csr non era di moda come è oggi.Per fortuna, le imprese non sono tutte tenute alla Wasserman per dimostrare di avere culture e gruppi dirigenti con la responsabilità sociale nel Dna.E qui sta anche la differenza, di cui abbiamo più volte parlato in questo sito, fra comunicazione dei comportamenti e comunicazione delle intenzioni.
A differenza della gran parte delle imprese oggi, J&J non cerca la visibilità ad ogni costo, non si sforza di essere sui giornali tutti i giorni per santificare la sua responsabilità sociale e quella dei suoi vertici: si limita ad agire e a comunicare con modalità socialmente responsabile: tutto lì!
E non è un caso che le aziende migliori sono quelle di cui si parla di meno e neppure è un caso che il vero valore del nostro lavoro sta soprattutto in quello che non succede (grazie ai nostri sforzi), piuttosto che in quello che succede!Sempre sul punto del ritiro di un prodotto riporto alcune sacrosante e recenti annotazioni di Luigi Norsa:1. Il ritiro e il richiamo del prodotto è un dovere del produttore qualora abbia il sospetto che un suo difetto possa comportare un pericolo per il consumatore.2. Quando non c'è il sospetto di un pericolo, il ritiro può talvolta essere un efficace sacrificio a breve termine per rimuovere il problema e salvaguardare la reputazione e impedire una crisi. A condizione però che il difetto sia "nel prodotto" e non "nel processo". Se il problema è "nel processo" il ritiro non rimuove il problema fintanto che il processo non sarà stato modificato.3. Il ritiro di un prodotto è molto costoso e si dovrebbe cercare di evitarlo, a condizione che si possa "giustificare" efficacemente e credibilmente il fatto di non ritirarlo.4. Quando si decide di non ritirare un prodotto che abbia un difetto minore che non pone rischi al consumatore, è comunque necessario prepararsi adeguatamente a fronteggiare una possibile crisi, dai toni fortemente emotivi, stringendo alleanze con credibili portavoce esterni all'azienda che possano rassicurare i consumatori con argomentazioni adeguate e veritiere.
Ed ecco una ultima considerazione di Luigi:Il caso dei residui di ITX mi fa poi nascere il sospetto che le industrie del comparto alimentare corrano dei rischi anche per la mancanza di trasparenza relativa alle allerte comunitarie: settimanalmente la commissione pubblica un rapporto delle notifiche RASFF dove però marchi e identità dei produttori non sono rivelati (cioè: mi è dato sapere che il 25 novembre dall'Italia è stata notificata una allerta relativa alla presenza di Listeria in salmone affumicato di produzione danese, ma non con quale marchio e quale lotto). Questa scelta della Commissione Europea sarebbe giustificata dal fatto che i prodotti in questione sono stati già ritirati o in procinto di esserlo (se poi l'ho già comprato&). Questa mancanza di trasparenza non credo rassicuri i consumatori e non credo che sul lungo termine sia un vantaggio per le aziende del settore. Tra l'altro, prima che la commissione decidesse di pubblicare il rapporto settimanale, le allerte europee erano pubbliche, con marchio, numero di lotto e nome del produttore sul sito dell'agenzia irlandese della sicurezza alimentare senza che questo favorisse particolari scandali o danni per le aziende.Singolarmente poi, il rapporto settimanale della Commissione sulle allerte per i prodotti non alimentari, il RAPEX, pubblica anche le foto dei prodotti coinvolti e non si può dire che i grandi marchi che occasionalmente devono procedere ad un ritiro o richiamo ne escano danneggiate.   
Poi, sul resto, ciascuno ha il diritto di dire la sua e di giudicare i comportamenti comunicativi delle organizzazioni, ci mancherebbe altro!, e le organizzazioni farebbero bene a evitare eccessive suscettibilità rispetto alle critiche che ricevono, soprattutto quando fanno di tutto per esporsi.E' ovvio che nessuno può essere tenuto a conoscere la storia in tutti i suoi dettagli: ma questo non può impedirci di dire la nostra, pronti a ricrederci se abbiamo sbagliato.
(tmf)
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