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La crisi finanziaria e la favola della trasparenza

29/09/2008

Per combattere la crisi finanziaria occorre migliorare la trasparenza delle istituzioni e dei prodotti finanziari riguardo agli strumenti più oscuri e tossici... Ma la trasparenza in realtà pare una favola, e le ragioni le illustra Luciano Gallino, nell'articolo tratto da "la Repubblica", che vi proponiamo.

di Luciano Gallino


A leggere le ultime dichiarazioni di Jean Claude Trichet, presidente delta Banca centrale europea, non si sa se sentirsi preoccupati, oppure presi in giro. Trichet ha detto in un’intervista che per combattere la crisi finanziaria dobbiamo migliorare la trasparenza delle istituzioni e dei prodotti finanziari riguardo agli strumenti più oscuri e tossici”. Non è il solo a lanciare messaggi sulla trasparenza come rimedio efficace alla crisi. La fanno da mesi banchieri, funzionari governativi, ministri, dirigenti delle organizzazioni internazionali. Il succo dei messaggi è questo: le banche migliorino le comunicazioni fornite ai loro clienti, in modo che essi possano scegliere con maggior consapevolezza tra prodotti finanziari più o meno rischiosi. Così la possibilità che milioni di risparmiatori si trovino tra le mani dei titoli privi di valore verrà drasticamente ridotta.


Lanciato dal presidente della Bce, il messaggio trasparenza tradisce o una straordinaria incomprensione dell’attuale sistema finanziario, che preoccupa in quanto manifestata da un alto esponente di esso, oppure l’intento di raccontare favole per tranquillizzare il popolo — da cui il senso di venir presi in giro. Ricordiamo che diversi commentatori hanno già espresso seri dubbi sulla capacità dei banchieri centrali di capire per tempo i devastanti meccanismi finanziari che essi stessi hanno contribuito a mettere in piedi. Ma vogliamo supporre che Trichet le necessarie competenze le abbia; siamo quindi costretti a pensare che con i suoi richiami all’importanza della trasparenza ci racconti una favola.


La trasparenza pare una favola per due ragioni. La prima è che negli ultimi vent’anni il sistema finanziario internazionale ha fatto l’impossibile, con il beneplacito e spesso con l’aiuto delle banche centrali per diventare opaco. Al riguardo gli esperti parlano esplicitamente di formazione, accanto al tradizionale sistema bancocentrico, d’un sistema finanziario ombra. Di esso fanno parte molte entità che non rientrano di per sé nel tradizionale sistema bancario, come i fondi speculativi, le banche d’investimento, i fondi monetari, i fondi patrimoniali privati, ma che hanno con le banche commerciali rapporti strettissimi, non foss’altro perché spesso sono state istituite da esse. Una banca commerciale affatto tradizionale come la Ubs svizzera, ad esempio, ha aperto da tempo una divisione interna che opera precisamente come una banca d’investimento. Ad ogni buon conto il sistema bancocentrico ha contribuito massicciamente al sistema finanziario ombra con due distinte operazioni, attuate con una finalità specifica: aggirare le disposizioni che regolano i movimenti di capitale.


Dopo aver indotto decine di milioni di persone a sottoscrivere prestiti per mille usi, le banche avevano infatti scoperto che se registravano in bilancio tutti i prestiti come passività, come prescritto, finivano per avvicinarsi troppo alla soglia del capitale minimo che le banche centrali richiedono a ogni banca di mantenere disponibile per assicurare la copertura dei prelievi che i clienti fanno in varie forme. Ciò avrebbe impedito loro di concedere altri presti li o effettuare lucrosi investimenti.


Al fine di alleggerire i loro bilanci, le banche hanno anzitutto trasformato le suddette passività in attività. Il colpo di genio è consistito nel conferire ai debiti dei clienti, e con essi alle proprie passività, la qualità di titoli commerciali che era possibile rivendere: operazione definita “titolarizzazione” (titrisation) o, in Italia, “cartolarizzazione”. Il nome più comune per tali titoli è Collateralized Debt Obligations o Cdo (obbligazioni che hanno per collaterale un debito). Questi titoli, la cui composizione è complessa perché incorporano differenti livelli di rischio, possono venire comprati e venduti da privati a privati, da banche a fondi comuni o a fondi pensione, da banca a banca, in un intreccio senza fine di scambi finanziari. Introdotti in Usa solamente dal 1977, e in Italia dal 1999 con la legge 130, questi titoli hanno avuto in meno di vent’anni una diffusione vertiginosa, li loro ammontare nominale ha rapidamente toccato, negli anni 2000, le decine di trilioni di dollari.


Con una seconda operazione sono state create dalle banche gran numero di entità fuori bilancio sponsorizzate da una o più di esse (Bank-sponsorerd Off-balance Sheet Entities — Obse). Le obse sono vere e proprie società, controllate da una banca cui pagano commissioni cospicue; ma poiché hanno una loro personalità giuridica, non compaiono nei fogli del bilancio della banca sponsor (che è il significato letterale di off-sheet). ll tipo più comune di Obse ha un nome vagamente militaresco; sono i Veicoli per scopi speciali. Con il bilancio alleggerito nei suddetti modi, le banche sponsor hanno potuto continuare a concedere prestiti perché migliorava il loro rapporto tra capitale proprio e indebitamento. Nel contempo hanno reso opacheo addirittura invisibili allo sguardo delle autorità di vigilanza, gran parte delle loro attività finanziarie. Sarebbe interessante sapere come la Bce o la Fed pensano di rendere trasparenti queste immense zone d’ombra scientificamente costruite, anche limitandosi soltanto alle prime 50 o 100 banche dei loro paesi.


Una seconda ragione che fa del discorso sulla trasparenza una favola è che in presenza dei rapporti immensamente complicati che sono stati istituiti tra i diversi sistemi finanziari, e dei prodotti non meno complicati che offrono al pubblico, è diventato tecnicamente impossibile attuare forme di trasparenza a favore dei risparmiatori. Si prenda il caso d’una risparmiatrice, R. che ha acquistato quote di fondi comuni d’investimento per 100.000 euro. La somma è stata distribuita tra una decina di fondi. Si sa che questi ultimi ripartiscono il rischio acquistando in media titoli di almeno un centinaio di società industriali e finanziarie (molte di più per i fondi più grandi). La signora R si trova quindi ad essere comproprietaria pro-quota (o creditrice, quando ci sono di mezzo obbligazioni) d’un migliaio di società. Tra i titoli di queste ci sono sicuramente Rmbs (titoli appoggiati ad un’ipoteca su immobile residenziale) e Cmo (obbligazioni che hanno un’ipoteca come collaterale); Abcp (titoli commerciali appoggiati ad un patrimonio) e Cmbs (titoli appoggiati a un’ipoteca su immobile commerciale); Cdo (obbligazioni che hanno per collaterale un debito) e Cds (contratti che assicurano un credito). Sembrano una parodia, ma sono tutti nomi e sigle reali.


In quali termini e con quali probabilità di successo il consulente finanziario della signora R potrebbe mai illustrarle, in nome della trasparenza, che i Cds della società X presentano un rischio minore dei Rmbs della società Y, però i Cmo della società Z promettono alla lunga un rendimento maggiore degli Abcp della società W? Al minimo, rischierebbe di vedere il cliente, posto dinanzi a tale muro di sigle,ritirare quanto possiede dai fondi comuni per investirli in normali Bot, che son sempre tre lettere, ma almeno hanno contenuti più trasparenti. Oltre ad essere pericolose per chi ci crede, le favole sulle cause della crisi finanziaria sono anche ostiche da tradurre in pratica.


tratto da La Repubblica del 29 settembre 2008
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