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#Metoo, la parola pubblica è un atto trasformativo della società

26/06/2023

Daniela Poggio

Il #MeToo della pubblicità, esploso pochi giorni fa, continua ad essere al centro dell'attenzione mediatica. FERPI intende continuare a dare il proprio contributo, insieme a tutti coloro che vorranno affrontare la questione in maniera profonda e radicale, come afferma la Vicepresidente, Daniela Poggio.

In questi giorni il mondo della comunicazione è attraversato da quello che i giornalisti hanno già definito il #MeToo della pubblicità. Il riferimento è alla campagna lanciata sui social nel 2017 in sostegno alle artiste di Hollywood abusate dal regista Harvey Weinstein, come rivelato dal New York Times a ottobre di quell’anno. In soli due giorni, oltre dodici milioni di donne, in ogni parte del mondo, condivisero con lo stesso hashtag - talvolta adattato e tradotto in lingue diverse - le proprie storie di molestie e violenza spesso taciute, puntando il dito contro un sistema che limitava la libertà delle donne e giustificava la prevaricazione degli uomini. In Italia, il testimone del #MeToo venne raccolto inizialmente dalla campagna #quellavoltache, lanciata dall’attivista e autrice Giulia Blasi, che diventò anche un libro, intitolato #quellavoltache – storie di molestie, pubblicato dalla casa editrice del Manifesto e grazie al quale vennero raccolte molte testimonianze. Successivamente, 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo firmarono un documento, dal titolo “Dissenso comune”, per contestare “un intero sistema di potere e non (solo) il potente di turno”. Spiragli di un dibattito che tuttavia, in Italia, non ha mai prodotto una vera e propria reazione, come ha ricordato in questi giorni Nadia Somma attivista presso il Centro antiviolenza Demetra: distinguo, delegittimazione delle testimonianze, paura di generalizzazioni a danni di innocenti (#notallmen) hanno impedito un’assunzione di responsabilità radicale e collettiva. Almeno, finora. Il caso di oggi nasce dalle dichiarazioni di un uomo, e questa è una novità: Massimo Guastini, pubblicitario, due volte presidente dell’Art Directors Club Italiano, che da anni conduce la sua battaglia contro le molestie sulle donne. Intervistato su Facebook da Monica Rossi (pseudonimo di un editor), risponde a 33 domande raccontando e denunciando comportamenti sessisti e discriminatori nei confronti delle donne, ma anche violenze e abusi. Pochi giorni e il caso è su tutti i media nazionali. Anche noi, all’interno della comunità FERPI, ne abbiamo parlato e abbiamo avvertito subito l’urgenza di prendere una posizione chiara e netta. In FERPI, il 55% delle socie è donna, ma soprattutto molte socie sono anche attiviste in associazioni che di violenza di genere si occupano con competenza e serietà ogni giorno. La cultura si trasmette da persona a persona, così sia io sia molte altre socie abbiamo avuto un ruolo pedagogico nei confronti della nostra comunità, ben disposta – va detto – ad assorbirlo. Non solo, tra di noi ci sono professionisti e professioniste dediti allo studio della responsabilità d’impresa, oggi declinata nelle attività ESG, che contemplano - alla voce “Diversity & Inclusion” - anche la parità di genere. Recentemente, ho partecipato alla presentazione dell’indagine “Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e false ESG” finanziata dal Parlamento Europeo, da cui sono emerse criticità sui rating delle imprese e in generale sulle asserzioni etiche aziendali. Coloro che credono profondamente nel percorso di sostenibilità dell’imprese come parte di un cammino per rendere il mondo un posto migliore, chiedono a gran voce che tale adesione sia autentica, anzi che si sanzioni il falso in bilancio sociale. Di fronte alle notizie che si rincorrevano sui giornali, anche quel mondo ha reagito, perché a fare la parte del green o pink washing non ci sta. Ed ecco come siamo arrivati, come comunità, a quella posizione cui seguiranno una serie di azioni che saranno proposte al prossimo direttivo.


Intanto, qualche considerazione che spero sia utile al dibattitto di questi giorni. La violenza di genere accomuna tutte le donne del mondo, è persistente non soltanto rispetto alle epoche storiche, ma anche rispetto a culture e a geografie diverse; ed è, come sancito dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1993, “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne”. Si tratta di un concetto ribadito anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, detta anche Convenzione di Istanbul (2011). Sebbene sia corretto e doveroso distinguere tra molestie e violenza sessuale, è importante riconoscerne la radice culturale comune e adoperarsi insieme, uomini e donne, per cambiarla. Come ricorda la giudice Paola Di Nicola, nel suo bellissimo libro “La mia parola contro la sua”, nessuna donna si sognerebbe di mettere la mano sul ginocchio di un uomo durante una riunione. Chiediamoci perché.

Seconda considerazione, che è soprattutto un dato. Le donne non denunciano le molestie, tantomeno le violenze. Non solo, non ne parlano nemmeno all’interno della loro cerchia di amicizie. Secoli e secoli di storia, ci hanno insegnato che in fondo, se succede, la colpa è anche un po’ la nostra e alla violenza si accompagna la solitudine. A ciò si aggiunge che quando una donna denuncia una violenza, spesso viene archiviata e l’autore assolto. Qui andrebbe aperto un capitolo a parte, e non ne abbiamo il tempo, ma ha ancora a che fare con la cultura in cui siamo cresciuti tutti e tutte. Ben vengano quindi survey di clima, whistleblowing e codici etici, nella piena consapevolezza che ad essi vanno affiancati percorsi di conoscenza del fenomeno della violenza, possibilmente erogati da chi se ne occupa ogni giorno.

Da ultimo, come ci ricorda la Di Nicola, sono stati pochissimi i nomi degli aggressori rivelati durante e dopo il primo #MeToo, perché il punto non era quello di accusare il singolo, ma un sistema di potere disuguale che sta dalla parte di chi fa del male, di chi copre, di chi rende tutto questo la norma. La presa di parola pubblica, conclude Di Nicola, apre a una fase nuova che non deve essere vissuta come contrapposizione, ma come trasformazione della cultura e dei comportamenti, anche quelli dei nostri figli e delle nostre figlie. 

Come FERPI daremo il nostro contributo, insieme a tutti coloro che vorranno affrontare la questione in maniera profonda e radicale.

 

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