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Negoziazione e Relazione: una rima non casuale

05/06/2012

Le skill del professionista sono fondamentali in ogni passaggio del processo negoziale: è stato il concetto chiave dell’intervento, tenuto lo scorso 31 maggio a Gorizia, da _Giampietro Vecchiato,_ durante il seminario _Negoziazione, Dinamiche Comunicative e Relazioni Pubbliche._

di Giampietro Vecchiato e Giacomo Scheich
Nel suo Vocabolario dell’intelligenza emotiva ed altro… (Cacucci, 2011) il sociologo del lavoro Angelo Battista riporta un’esperienza vissuta da un imprenditore che frequentava un corso di formazione manageriale. Egli ha raccontato di essersi rivolto a un noto dentista della sua città per un intervento piuttosto costoso. Dopo le visite e l’intervento, il paziente è rimasto deluso per diversi aspetti: è stato visitato spesso dall’assistente (un giovane neolaureato), i tempi si sono allungati oltre le attese e il risultato estetico non è stato quello desiderato. Tuttavia, dopo il saldo della parcella, l’imprenditore ha chiesto di poter ringraziare di persona il medico, ma quest’ultimo non era disponibile neanche in quell’occasione. A quel punto egli ha dichiarato che non si sarebbe rivolto mai più a quel dentista.
Il paziente in questo caso è rimasto deluso dal professionista sotto diversi punti di vista: sia etico, in quanto il lavoro è stato spesso eseguito da un praticante, sia professionale-operativo, in quanto il risultato non è stato quello atteso e sono stati violati gli accordi iniziali (i tempi dilatati). Ma quello che ha determinato la vera rottura del rapporto medico-paziente è stato l’aspetto relazionale: è stato frustrante per il paziente non avere l’attenzione da parte del medico ed è venuto meno il riconoscimento della relazione instaurata nel periodo di visita e cura, quando egli era presente. È come se il dentista avesse violato un patto tacito, in cui le aspettative emotive dell’imprenditore erano altre e sono venute meno per la scarsa abilità sociale del professionista.
Questa esperienza reale introduce in maniera perfetta quelle che possiamo definire come le tre dimensioni della professionalità: etica, operativa e relazionale. E rende anche subito chiara l’importanza della sfera relazionale nei rapporti professionista-cliente (in qualsiasi ambito esso avvenga: sanitario, giuridico, d’impresa, ecc.). Non basta semplicemente che il professionista si comporti in maniera corretta (etica) e faccia bene il suo lavoro non disattendendo i risultati concordati (operativa), ma deve saper essere un vero professionista (relazionale). Deve ispirare fiducia, saper ascoltare e riuscire a capire l’_altro_. Non è affatto semplice creare un rapporto empatico tra professionista e cliente, ma ci sono dei principi comunicativi fondamentali di cui bisogna tener conto e ci sono delle abilità che il professionista deve sviluppare ed esercitare perché non sempre sono innate. La dimensione relazionale, per quanto sia sempre importante, ha una valenza diversa a seconda dei campi di applicazione. È chiaro che ci sono alcune professioni in cui essa diventa LA dimensione, ovvero l’aspetto più importante in ambito lavorativo. Nelle Relazioni Pubbliche, ad esempio.
Partiamo dall’ultima definizione che la Global Alliance for PR and Communication Management ha dato della disciplina: “Le relazioni pubbliche sono un processo di comunicazione strategica che costruisce relazioni di vantaggio reciproco tra le organizzazioni e i loro pubblici”. La Global Alliance è la confederazione delle maggiori associazioni e istituzioni del mondo delle relazioni pubbliche e della comunicazione e questa definizione è stata selezionata tra un gruppo di 927 totali tra il novembre 2011 e il febbraio 2012. Qualche anno prima, nel 2008, gli studiosi Flynn, Gregory e Valin avevano già tentato di fare un passo verso una definizione universalmente riconosciuta: “Per relazioni pubbliche si intende la gestione strategica delle relazioni che esistono fra un’organizzazione e i suoi diversi pubblici, attraverso la comunicazione, per raggiungere la comprensione reciproca, gli obiettivi organizzativi e servire l’interesse pubblico”. In entrambe le definizioni emerge il focus sulla relazione tra l’organizzazione e i pubblici di riferimento e la creazione di valore derivante da essa. Dire semplicemente che la dimensione relazionale sia quella principale per il professionista delle relazioni pubbliche sembra essere la classica scoperta dell’acqua calda. Tuttavia, è estremamente interessante capire quali siano le abilità intrinseche a questa dimensione e l’insieme delle competenze che un buon relatore pubblico deve aver acquisito e fatto proprie: le cosiddette “skill relazionali”.
Nel 1993 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, in un documento dedicato all’educazione, stilò un elenco di abilità personali e relazionali che permettono ai ragazzi “di affrontare in modo efficace le esigenze della vita quotidiana, rapportandosi con fiducia a se stessi, agli altri e alla comunità”. Leggendo quest’elenco si ritrovano tutte le abilità e le competenze di cui un comunicatore ha necessariamente bisogno, nonostante quest’elenco sia stato pensato per altri scopi. Queste skill comprendono l’*autocoscienza*, ovvero la conoscenza di se stessi, del proprio carattere, dei propri bisogni e desideri, dei propri punti di forza e di debolezza. Solo con un’autocoscienza alla base è possibile costruire una relazione interpersonale equilibrata. La gestione delle emozioni e la gestione dello stress sono altre due skill importanti che servono a mantenere il proprio autocontrollo e a gestire in maniera lucida e appropriata le situazioni di difficoltà. È importante inoltre sviluppare un senso critico tale che consenta di fare le valutazioni corrette, pesando i vantaggi e gli svantaggi, compiendo scelte consapevoli e misurate. Occorre poi saper prendere decisioni ( decision making ) ed essere capaci di risolvere problemi ( problem solving ) sulla base delle analisi e delle valutazioni fatte in ogni situazione differente in cui ci si imbatte nel percorso professionale e non solo. Una skill fondamentale è la creatività: quell’abilità che consente di creare legami tra cose e processi differenti per arrivare a soluzioni innovative. Un bravo comunicatore riesce inoltre a creare un rapporto di comprensione totale, o quasi, con i pubblici con cui si rapporta: è capace di ascoltare e capire gli altri, creando empatia con essi e, allo stesso tempo, sa trasferire in maniera chiara e univoca i propri messaggi. Non si limita ad ascoltare o parlare, ma comunica.
E sa mantenere le relazioni: conosce le regole, sta attento ai principi e non trascura i dettagli.
Guardando nel dettaglio le abilità elencate sopra, emerge che esse siano basilari, oltre che per un buon comunicatore, anche per un buon negoziatore. Analizziamole una per una. L’autocoscienza è il proprio io e la propria posizione nel mondo, la distinzione delle parti in un processo di confronto di interessi diversi; la gestione dell’emotività e dello stress è alla base di ogni attività negoziale: è bene sempre non agire di impulso e affrontare con la dovuta lucidità ogni fase del processo negoziale; il senso critico permette di oggettivare le rispettive esigenze delle parti in causa; saper prendere decisioni è fondamentale in qualsiasi processo manageriale; creatività e problem solving sono le parole chiave dell’eventuale sbocco positivo della negoziazione: l’accordo; empatia e comunicazione sono allo stesso tempo il mezzo e il fine del processo, sono gli strumenti che si usano per scambiarsi e comprendere le diverse esigenze e, al contempo, fanno parte di ciò che un processo costruttivo genera e rafforza: il dialogo. Ecco una parola chiave.
Nelle discipline della comunicazione come nei processi di negoziazione, il dialogo è ciò che permette di superare i problemi e conseguire gli obiettivi preposti. Pensiamo ad esempio alla definizione delle relazioni pubbliche della Global Alliance, citata in precedenza, secondo cui i relatori pubblici costruiscono “relazioni di vantaggio reciproco tra le organizzazioni e i loro pubblici”. Come vengono costruite queste relazioni, se non con il dialogo? Se vogliamo fare una metafora, possiamo dire che le relazioni costituiscono dei ponti tra sponde più o meno distanti tra loro e il dialogo costituisce la materia prima con cui questi ponti vengono costruiti: i mattoni.
Per questo la comunicazione e l’empatia, così come il dialogo, sono sia il mezzo che il fine: in un processo di tessitura di una relazione ogni mattone rende più forte il ponte e, di conseguenza, tutti gli altri mattoni. Il costruttore di ponti, ovvero il buon comunicatore, deve stare attento a curare le sue relazioni, a collocare nella maniera esatta i mattoni, tenendo sempre presente che una relazione persa è un’opportunità che va via e difficilmente ritorna.
Spesso il relatore pubblico ricopre proprio il ruolo di negoziatore per le abilità e competenze di cui si è dotato nel suo percorso di formazione e crescita professionale. Skill che sono esattamente quelle che l’OMS ha individuato come fondamentali per gli adolescenti nel loro sentiero verso l’età adulta nella società. Skill che, però, non sono affatto banali o comuni, ma vanno coltivate, rafforzate e, soprattutto, adattate alle differenti occasioni.
Nel campo delle relazioni pubbliche sono diversi i settori in cui entrano in gioco le abilità negoziali del professionista. Dalle media relation, in cui c’è un gioco di mediazione continuo tra l’ufficio stampa e il giornalista, alla lobby e le relazioni istituzionali, in cui gli interessi contrapposti elaborano alleanze strategiche per interagire meglio con il soggetto pubblico; dalla comunicazione di crisi e le litigation PR, in cui i professionisti entrano in difesa della reputazione e della business continuity dei soggetti coinvolti e spesso influiscono concretamente sulle controversie, ai processi inclusivi e partecipativi che vedono il coinvolgimento degli stakeholder nelle decisioni che hanno un impatto sul territorio e la comunità (pensiamo non solo alle grandi opere, ma anche all’event marketing e al marketing territoriale, in cui ci sono svariati soggetti coinvolti). Il negoziatore si trova a fronteggiare situazioni di conflitto, spesso annose e realmente aspre. Come abbiamo detto, non si tratta solo di conflitti tra coniugi o condomini, ma anche casi intra o inter-aziendali; problematiche tra organizzazioni e comunità locali; scontri con le amministrazioni o il legislatore; ecc. Solo il dialogo consente di puntare a strategie che soddisfino tutte le parti coinvolte, uscendo dalla logica del gioco a somma zero che impone che la vittoria dell’uno sia la sconfitta dell’altro. Solo il dialogo consente di far emergere quelle criticità che stanno veramente alla base del conflitto: spesso nemmeno le parti stesse sanno quali siano le vere cause endogene dello scontro e le scoprono lungo la via. Solo il dialogo consente alle parti di aprire alla disponibilità di rinunciare a qualcosa in cambio di qualcos’altro. In altre parole il dialogo consente di trovare un compromesso. Questa parola è abitualmente considerata in maniera negativa, come un qualcosa di sporco e limitante. È sempre stata messa a confronto con l’ideale, con ciò che è maggiormente congeniale e al limite della perfezione. Eppure il compromesso è il vero motore delle relazioni interpersonali: immaginiamo come sarebbe difficile vivere in una società come la nostra (con la pluralità di opinioni, ideali e culture che la caratterizza) senza trovare delle vie di mezzo che magari scontentino un po’ tutti, ma che possano comunque essere accettate. Senza compromesso avremmo il trionfo di ogni tipo di massimalismo e inevitabilmente un processo di autodistruzione continuo, in quanto i conflitti non avrebbero soluzioni possibili. Ovviamente non tutti i compromessi sono positivi e auspicabili. Avishai Margalit, docente a Princeton, paragona i compromessi ai batteri. «Molti di essi sono vitali per l’esistenza, e solo un numero insignificante è invece causa di malattie – scrive Margalit nel suo libro “On compromise and rotten compromise”– Esattamente come abbiamo bisogno di antibiotici per resistere ai batteri patogeni, siamo chiamati a resistere in modo attivo contro compromessi marci e corrotti».
Il compromesso è, dunque, un’altra delle parole chiave, ma non è tutto.
Come facciamo a credere che l’interlocutore rispetti le condizioni a cui siamo duramente arrivati attraverso il percorso di negoziazione? Come facciamo a credere che durante il processo non ci abbia preso in giro o abbia bluffato per ottenere un risultato migliore? In linea di massima l’accordo a cui si è giunti può e, spesso, deve essere sanzionato da un documento scritto ufficiale in cui le parti fanno da garanti su ciò che hanno pattuito. Tuttavia, ci sono accordi che si basano più sul reciproco rispetto dei patti, piuttosto che sul documento firmato (vedi gli accordi tra diverse diplomazie internazionali). E inoltre niente di scritto garantisce che le parti abbiano giocato a carte scoperte durante la negoziazione, anzi. In questo caso entra in gioco un altro fattore, fondamentale tanto nella costruzione di una relazione, quanto nel processo di negoziazione: la fiducia. Questo concetto può essere distinto a seconda del caso e a seconda del grado di impegno che richiede. In linea di massima possiamo parlare di una fiducia basata sul calcolo e di una fiducia basata sull’_identificazione_. Nel primo caso essa viene concessa sulla base del calcolo economico o di convenienza: non si tradiscono i patti perché si vuole ottenere un guadagno e si preferisce evitare una sanzione. Nel secondo caso si tratta invece di uno stadio più avanzato di fiducia che si sviluppa nelle relazioni più solide, spesso di carattere personale: due persone si identificano con i pensieri e i desideri dell’altro; si comprendono reciprocamente e rispettano gli accordi espliciti e impliciti del rapporto. Questo secondo tipo di fiducia, per quanto più tipico delle relazioni intime e personali, si può estendere anche a quelle professionali. La fiducia è una base su cui bisogna intavolare ogni tipo di relazione e il grado di fiducia reciproco determina la qualità del rapporto: non possiamo instaurare un dialogo con una persona, la quale sappiamo che ci può mentire o tradire, abbiamo bisogno di quel minimo di sicurezza che ci possa far compiere quel piccolo salto in avanti e superare gli steccati della normale diffidenza reciproca. Naturalmente la fiducia non si può acquisire in poco tempo, ma va conquistata pezzo dopo pezzo; questo riguarda anche quella basata sul calcolo: non portiamo i soldi in una banca di cui non sappiamo assolutamente niente o che appartiene a un proprietario con diversi fallimenti alle spalle. Diversamente dalla conquista, la perdita della fiducia è questione di attimi: basta un’azione sbagliata, un gesto inatteso, un’espressione del viso inopportuna o anche solo un sospetto, per piegare in maniera spesso irreversibile il rapporto fiduciario costruito.
Il processo di negoziazione è tanto complesso, quanto le due parti si percepiscono distanti e spesso il segreto del negoziatore risiede nel comprendere e nel far comprendere che esse non sono così distanti come sembrano. Spesso alla base dei conflitti ci sono cause emotive e a quel punto risulta difficile impostare la trattativa su basi meramente materiali: una coppia che sta divorziando può lottare in giudizio per la casa al mare, ma spesso si tratta solo di uno specchietto per le allodole. Anche nel film “La guerra dei Roses” marito e moglie litigavano per la casa, ma la ragione profonda era puramente emotiva e il fallimento del negoziatore (interpretato da un ottimo Danny De Vito) è stato proprio quello di non essere riuscito a far mettere loro da parte la rabbia, per ragionare concretamente sul vero tema della contesa. Per questo sono fondamentali le skill relazionali, indicate in precedenza: per entrare in sintonia, quando non in empatia, con le parti; comunicare con loro; comprenderne le ragioni e trasmettere loro le ragioni della parte avversa. Per arrivare ad un accordo.
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