Diana Daneluz
La vera rivoluzione del nomadismo nell’era digitale non sta nel movimento, ma nella capacità di mettere radici ovunque
Il Quarto Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia, appena pubblicato online, offre la fotografia di un fenomeno che non riguarda più solo la trasformazione del lavoro, ma la capacità del Paese di rendersi competitivo nella geografia globale dei talenti. Per i comunicatori, chiamati a interpretare e indirizzare i processi sociali ed economici, il documento diventa una bussola preziosa: dietro il lavoro da remoto si cela infatti una questione di reputazione, attrattività territoriale e narrazione del cambiamento. L’Italia, avverte il report, rischia di arrivare tardi.
Il nomade digitale
Attualmente nessuna delle classificazioni accademiche disponibili descrive appieno la figura del “nomade digitale” e l’auto-identificazione rimane l’unico parametro di partenza per attribuire una classificazione qualitativa e quantitativa del fenomeno nomadi digitali. L'Associazione Italiana Nomadi Digitali, presieduta da Alberto Mattei, parla di nomadi digitali come “gruppo eterogeneo di persone di nazionalità, età, stati civili e professioni differenti, che utilizzano le tecnologie digitali e il lavoro da remoto per rendersi indipendenti da una sede fissa e da una posizione geografica specifica. Questo stile di vita e di lavoro consente loro di viaggiare e di spostarsi sia all'interno di un paese che tra nazioni diverse, ognuno in base alle proprie esigenze e motivazioni personali”. Nomadismo digitale nell’era post-pandemica diventa ponte tra la memoria profonda dei luoghi e un futuro che reinventa il modo di vivere, lavorare e abitare i territori in chiave contemporanea e in una nuova dimensione rigenerativa e comunitaria.
Analizzare il fenomeno per farne motore di innovazione territoriale
Il rapporto – realizzato dall’Associazione Nomadi Digitali ETS in collaborazione con il Dipartimento Venice School of Management dell’Università Ca’ Foscari e nell’ambito del progetto Work from anywhere, tecnologie abilitanti e il loro impatto sullo sviluppo delle città, Venice School of Management, finanziamento P.O.N. – sintetizza oltre 800.000 conversazioni di oltre un decennio sul tema del nomadismo digitale su Twitter/X, integrate da studi qualitativi e casi territoriali come quello cinese in una ricerca interdisciplinare durata 2 anni. Dati che mostrano l’evoluzione di un fenomeno strutturale e non più episodico: il nomade digitale contemporaneo è un professionista qualificato, spesso inserito in aziende internazionali, alla ricerca di qualità della vita, connessioni solide, comunità e infrastrutture funzionali. La pandemia ha accelerato il processo, spingendo l’attenzione verso borghi e aree rurali e trasformando la mobilità temporanea e il lavoro da remoto in leve di riposizionamento per territori fragili. Il dato più significativo riguarda proprio le aree interne: rappresentano oltre la metà dei comuni italiani, ma accolgono solo il 23% della popolazione, con dinamiche demografiche negative sempre più marcate. Qui il nomadismo digitale potrebbe invece diventare un volano di rigenerazione economica attraverso consumi locali, coworking, microimprese e nuove forme di comunità attive.
L’Italia, tuttavia, continua a muoversi con lentezza. L’introduzione del visto per nomadi digitali nel 2024 è un passo importante, ma a più di un anno dall’entrata in vigore del Decreto del 29 febbraio 2024, che ha introdotto il visto per nomadi digitali a partire dal 4 aprile dello stesso anno, il bilancio resta incerto a causa della totale assenza di dati pubblici noti al momento sul totale delle domande presentate, la percentuale di accoglimento, le nazionalità più rappresentate tra i richiedenti e i tempi medi di elaborazione. Altrove però sembrano essere attivi modelli più agili come quelli adottati da Portogallo, Estonia o Grecia. Soluzioni fiscali chiare, burocrazia semplificata, comunicazione coordinata e servizi mirati sono gli elementi che altrove hanno attratto flussi di professionisti globali, mentre in Italia la frammentazione rallenta la crescita.
Il potenziale del nomadismo digitale per attirare professionisti italiani e stranieri
Per invertire la rotta, gli autori individuano sei direttrici strategiche: sensibilizzare le comunità, strutturare competenze locali, mappare risorse e servizi, progettare spazi integrati di accoglienza, attivare comunità e infine comunicare in modo mirato l’identità dei territori. È proprio quest’ultimo punto a chiamare in causa il ruolo dei comunicatori: senza un racconto coerente, autentico e competitivo, ogni politica di attrazione rischia di restare incompiuta. E la sfida, oggi, riguarda la capacità di costruire una narrazione nazionale e territoriale capace di intercettare chi il futuro lo sta già abitando altrove. Per chi opera nella comunicazione, è il momento di trasformare questa consapevolezza in strategia.
La comunicazione come asset strategico nell’economia dei talenti
Nel rapporto emerge un punto spesso sottovalutato: senza una comunicazione efficace, nessuna strategia di attrazione dei talenti può funzionare. La sesta direttrice individuata dagli autori – “Proporre e vendere”, ovvero comunicare e posizionare l’offerta territoriale e nazionale – è infatti il cardine che permette alle altre di produrre risultati tangibili. Non si tratta di un semplice esercizio promozionale: è un processo complesso che richiede competenze, metodo e una visione coordinata tra istituzioni, comunità locali e stakeholder. Per intercettare nomadi digitali, lavoratori da remoto e giovani professionisti, serve una comunicazione progettata ad hoc, capace di mettere in evidenza unicità, identità e servizi reali dei territori. Non basta raccontare borghi e paesaggi: bisogna tradurre in narrazione ciò che un luogo può offrire a chi lavora da remoto, dalla qualità della connessione alle reti collaborative, dagli spazi di coworking alla vita comunitaria.
Per i comunicatori italiani questo rappresenta una sfida rilevante. La competizione internazionale è fortissima: Paesi come Portogallo ed Estonia hanno costruito campagne unitarie, semplici e riconoscibili, che integrano informazione normativa, posizionamento strategico e comunicazione emozionale. L’Italia, invece, appare frammentata tra iniziative locali isolate e una narrazione nazionale ancora poco definita. Eppure, il potenziale è enorme: diversità paesaggistica, ricchezza culturale, costo della vita competitivo in molte aree interne, tessuto sociale che può favorire integrazione e appartenenza.
Da qui deriva l’importanza di un nuovo approccio alla comunicazione territoriale, più orientato ai dati, più aderente agli stili di vita dei lavoratori globali, più capace di parlare a comunità mobile e digitale. La posta in gioco è alta, perché la scelta di dove vivere e lavorare non riguarda più il turismo, ma il capitale umano.
Nella prospettiva dei professionisti della comunicazione, il rapporto sollecita quindi un cambio di paradigma: non “raccontare un territorio” in modo turistico, ma contribuire a costruire la sua competitività, traducendo bisogni, vocazioni e identità in un messaggio coerente, credibile e coordinato. È questo il tassello che potrebbe trasformare il nomadismo digitale da fenomeno osservato a opportunità realmente colta per attrarre talenti e riabilitare i luoghi d’Italia a rischio abbandono.
Più informazioni qui: osservatorio@nomadidigitali.org