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Parole e fatti: la dialettica del linguaggio

01/02/2012

Chiunque si occupi di comunicazione conosce l'importanza delle parole. Ma perché un messaggio arrivi davvero occorrono anche i fatti. Il sociologo _Guido Martinotti_ affronta la dinamica che vede contrapposte le pratiche verbali a quelle fattuali e confronta i linguaggi dell'era Berlusconi a quella di Monti.

di Guido Martinotti
L’ultimo articolo di Giorgio Bocca, pubblicato postumo, contiene una critica durissima all’uso smodato del linguaggio in anticipazione di un libro sul tema. “La mia generazione”, scrive Bocca, “ha pensato di fare buona informazione, buona cultura, con la buona cronaca, onesto racconto della realtà con il mero realismo; siamo stati superati, sommersi dallo tsunami pubblicitario, dal realismo del venduto e dell’ acquistato, dal trionfo del paramercato”. (La lingua perduta così le nostra parole così le nostre parole sono diventate di plastica, La Repubblica, 10/01/12, p. 51). E’ un tema di cui molti dei grandi scrittori e letterati italiani si sono occupati più volte, anche in virtù della circostanza che in Italia esistono ancora e sempre forti tracce di una sorta di dualismo linguistico, quello delle classi colte (10% della popolazione molto approssimativamente) e quello della “plebe” (“parla come mangi”) che la diffusione della cultura di massa non ha colmato, ma anzi forse ulteriormente complicato. Vedi Raffaele Simone: “Tra le disinfestazioni di cui il Paese ha bisogno in quest’ intervallo post-berlusconiano ce n’ è una immateriale ma non per questo meno urgente. Si tratta di bonificare a fondo il linguaggio che le persone pubbliche usano per rivolgersi ai cittadini e per parlare tra loro” (Il linguaggio da bonificare, La Repubblica, 7/12/2011, p. 47). Io penso che le parole siano una eredità che ci viene trasmessa, una eredità che a volte contiene tesori nascosti che è più che giusto esplorare, ma con il rispetto che si deve a un dono prezioso.
Distorcere le parole per ottenere effetti effimeri mi è uno dei trucchi più banali e d’avanspettacolo del mestiere di scrivere. Purtroppo in questo periodo, in cui i cosiddetti comunicatori pubblici, o come li volete chiamare, si dedicano sistematicamente al manierismo alessandrino, mescolando suono, parola e immagine, quello che io (ma non solo) ritengo un pessimo vizio, viene perseguito con spensierata grullaggine. Prendiamo la campagna di rinnovo degli abbonamenti RAI 2012 in cui volendo pasticciare con le parole qualcuno ha avuto l’alzata di genio di definire il canone della RAI un “tributo”, ma poi sospettando che forse c’era qualche problemino (in un paese in cui non solo l’evasione è universale, ma in cui anche lo sciopero dei pagamenti alla collettività è visto come un qualsiasi altro diritto) ha pensato di rimediare giocando con l’idea plasti-buonista che pagare il canone è “un tributo al lavoro di chi in RAI lavora”. Rallegramenti: per 8 su 10 degli italiani “tributo” significa “la (polizia) tributaria” e non credo che ci sia modo più efficace in questo paese per scoraggiare piuttosto che incoraggiare una pubblica contribuzione di quello di assimilarla a una imposta: in particolare, il canone RAI è la contribuzione pubblica più evasa in percentuale sull’incassato di ogni altra in Italia 37,5% ( La Repubblica, 19/01/2012, p.9) Per di più è, tecnicamente parlando, un brutto svarione, il canone RAI non è un tributo, ma una tariffa, cioè un esborso per acquistare un servizio, come il biglietto del treno, dell’aereo o il pedaggio di una autostrada. Costantino Bresciani Turroni, uno dei padri della moderna scienza delle finanze e limpido antifascista, insegnava che “la tariffa è la culla dell’imposta”, ma non una imposta. Un caso esemplare, ma ahimè modale, in cui l’ignoranza e lo scarso rispetto per le parole, si mescola alla supponente pretesa di manipolarle a piacere.
Ma siamo nel pieno di una onda di moralismo verbale in questa nuova temperie politica, passata la parola d’ordine che occorre far la guerra all’evasore, alcuni si sono convinti che un’arma efficace di questa guerra fosse quella di raffigurare questo evasore come l’odiato ROM, con la faccia del mendicante rom che si incontra all’angolo della strada, assimilandolo anche, con un tocco incredibilmente greve di razzismo, a uno o più dei vermi orribili che abitano nel nostro intestino. Così della intera campagna rimane soprattutto impresso che il rom è simile all’orrido Ancylostoma Canina, mentre l’evasore esce di scena (1). La stessa agenzia ha cercato di infondere negli italiani il concetto che il paese in cui si pagano le tasse è un felice paesaggio per bambini con idilliaci giardinetti da Corrierino dei Piccoli affissi in tutti i luoghi pubblici. Sfortunatamente, questa campagna, puerile oltre che puerilizzante, ha coinciso con una delle maggiori ondate di esportazione di capitali all’estero della storia recente. Io non so se le agenzie statali che investono milioni dei nostri soldi in questo tipo di campagne pretendano poi di avere qualche prova dell’efficacia della campagna, sarei veramente curioso di sapere (con evidenza fattuale) quanti evasori sia riuscita a convincere la campagna di Saatchi & Saatchi contro l’evasione e se, almeno, si siano recuperati i soldi spesi.
L’Area C è una iniziativa maledettamente seria, destinata a incidere molto profondamente sulle attività e le pratiche quotidiane di molte migliaia di persone, a partire dal sottoscritto che vi risiede. E’ stata una buona idea spostare l’attenzione dall’attività con tutte le contorsioni verbali del progetto morattiano (congestion tax, Pollution tax, poi Ecopass, etc.) cui ha fatto da riscontro scarsa incisività nell’attuazione. Come ho già scritto su Arcipelago, io ritengo che il problema non potrà essere risolto che con un grande salto tecnologico combinato con una incisiva innovazione nella individuazione dell’area funzionale della mobilità. Ma la politica è anche l’area del possibile ed è saggia la decisione di proseguire con la filosofia avviata da Londra e consolidata, trasformando la cattiva imitazione morattiana in una politica reale. Ma è anche un grande azzardo dell’amministrazione perché incidere sulle pratiche quotidiane e sugli interessi che vi si avviluppano attorno, è una delle attività più costose e rischiose che un politico possa intraprendere. Il bilancio richiederà un tempo abbastanza lungo e le proteste si sentono subito). “Le parole del Sindaco Pisapia nella lettera ai cittadini: “un sacrificio per cambiare Milano” corrispond(ono) di più al “patto” che occorre stringere tra amministratori e amministrati per percorrere nuove strade che riescano a migliorare il benessere collettivo”. E’ l’unico ragionamento che si può fare a chi per adattarsi alle nuova situazione dovrà fare “sacrifici”. Sentite invece come viene presentata la cosa dai guru della comunicazione con garrula auto-compiacenza per la trovata: ”_C sarà meno traffico, C voleva un cambiamento_ e C metti meno tempo ”. L’ideatore del nome e del logo, l’architetto Giulio Ceppi, in una intervista al Corriere ne spiega le motivazioni, affermando tra l’altro di aver cercato “una modalità di comunicazione non ieratica, né aggressiva, ma neppure flautata, o marchettara” (sic). Ah, questi architetti che fanno tutti i mestieri e pontificano su tutto come se fossero competenti! Speriamo non facciano troppi danni. Ma a chi si rivolge questa comunicazione con tutte quelle buone qualità negative? Chi sta cercando di sbrogliarsi con figli, nipoti, malati o semplicemente con un aggravio di spesa che può apparire modesto ma che in tempi di crisi può per alcuni non pochi essere un costo marginale doloroso? Si faranno costoro commuovere dal puerile bizantinismo delle “C”? Non è un caso che Ferpi, una corporazione che non ha mancato di fornire tuttologi di vaglia, ma che in fatto di comunicazione ha competenza, ha espresso non malcelate riserve su questo genere di comunicazione. Eppure in tutti questi casi la teoria avrebbe suggerito un diverso approccio. Parlo del classico del 1946, Mass Persuasion, (2) di Robert K. Merton. Si tratta di una ricerca condotta sul Kate Smith War Bond Drive del settembre del 1943 quando il governo americano incontrava molte difficoltà a vendere i buoni del prestito di guerra (“questa qui la conosco purtroppo!”) e aveva investito nella campagna radiofonica per venderli, tutte le maggiori risorse artistiche disponibili, da Frank Sinatra in qua, con scarsissimi risultati. Finché la sera del 21 settembre 1943 il turno ai microfoni della CBS è quello di una cantante di secondo piano, la rotondetta Kate Smith, senza offesa per nessuno, una Gigliola Cinquetti o giù di lì. Miracolosamente il risultato fu uno tsunami di vendite. Kate Smith divenne la Cantante dell’America e Robert Merton, uno dei maggiori studiosi di opinione pubblica studiò da vicino il caso con il Bureau of Applied Social Research della Columbia University, arrivando alla famosa formulazione della distinzione tra “propaganda of the words”, inefficace in un mondo di troppe (e come abbiamo visto maltrattate) parole, e “propaganda of the deeds”, una propaganda sostenuta invece da fatti concreti. Questa distinzione è uno dei perni della comunicazione moderna e sta alla base del concetto di testimonial. In una cacofonia di offerte morali in cui attori diversi ti invitano a comperare la loro merce normativa, ha scarso senso e poca efficacia che io ti inviti con buone parole a fare un sacrifico per la collettività; ma se con il mio sacrificio, con la mia azione, ti do la prova che è “bello morire per la patria”, come dicevano gli antichi romani, allora metto in moto un meccanismo di adesione e di emulazione. Merton scoprì che Kate Smith non si limitava a far cadere dall’alto una esortazione, ma sacrificando se stessa in 18 ore filate di trasmissione dietro al microfono, offriva un fatto e non solo parole e con questa distinzione gettò le basi per una tecnica comunicativa di “persuasione di massa” molto efficace da allora ripresa largamente.
Che ci sia un senso di sazietà non è escluso: ci sono due begli esempi: Monti e Pisapia, entrambi i quali hanno una parlata molto anomala rispetto a quella di questo periodo, direi uno stile decisamente anti-cafonal: non urlano e hanno una loquela per certi versi legnosa, ma se inceppano tirano avanti tranquillamente. Diciamo che proprio la parlata stentata offre un perfetto opposto ai Capezzone, Cicchitto e Quagliariello. Molte persone, anche colte, non hanno capito che questa nuova forma comunicativa ha un successo insperato perché porta l’attenzione sul ragionamento ma soprattutto lo fa proprio perché il suono delle parole non è quello usuale. E’ un vecchio trucco che ho imparato da Strehler molti anni fa, e che mi è servito varie volte, se stai parlando in una sala affollata in cui c’è molto brusio, la reazione spontanea dell’oratore è di alzare la voce per sopraffare il brusio, con l’unico risultato di aumentarlo. Se invece abbassi di colpo il tono tutti smettono di chiacchierare per cercare di capire cosa sta succedendo. Personalmente ritengo che sia proprio questa una delle componenti della forza del nuovo, cosa che peraltro corrisponde perfettamente alle conoscenze teoriche che abbiamo sull’argomento: meno parole.
Mi auguro che dopo anni di Padania da operetta di cartapesta, lo stile del Gran Lombardo faccia piazza pulita di queste campagne puerili basate sulle parole, e le sostituisca con la “propaganda dei fatti”, come si è già cominciato a fare con il blitz della finanza a Cortina. Ovviamente non bisogna avere inventato la polvere da sparo per capire che la brutta faccia dello pseudo-rom spaventa il buon borghese, ma come evasore non fa paura a nessuno; mentre le signore di Cortina con “macchine sempre più grosse e telefonini sempre più piccoli”, non solo fanno incazzare tutti perché non pagano le rette all’asilo dei figli, ma hanno veramente molto da rubare. E’ il riccone elegante quello che mette le mani nelle nostre tasche, come ha efficacemente e fattualmente spiegato Monti, senza sprecare troppe parole, non il barbone cui diamo al massimo qualche picciolo.

(1) Sulla Rete si è giustamente scatenata una protesta, con un migliaio di video che ridicolizzano lo spot della grande agenzia internazionale, non di rado molto più divertenti ed efficaci dello spot originario.
(2) Robert K. Merton, Marjorie Fiske, Alberta Curtis, Mass persuasion: the social psychology of a war bond drive. Oxford, England: Harper. (1946). Purtroppo, mentre anche i bambini sanno che cosa sia un testimonial, e l’editoria italiana è pronta a tradurre anche il più banale dei saggetto di un Bauman, un classico come “Mass persuasion” non è mai stato tradotto impedendo ad architetti e a altri self-appointed comunicazionisti di imparare i fondamenti di questa scienza.
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