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Per rafforzare Cesare occorre fare i conti con Pietro

11/05/2011

Se la politica tradisce le attese sociali, le persone si sposteranno quasi automaticamente verso l'altro grande generatore di senso, la religione. È quindi necessario cercare un terreno di collaborazione "alla luce del sole", tra istituzioni politiche e religiose. La riflessione di _Mario Rodriguez._

di Mario Rodriguez
Non credo sia casuale, anzi, penso sia frutto di una scelta meditata se l’edizione pasquale della Repubblica sia stata caratterizzata da quattro pagine (fatto giornalisticamente eccezionale di per sé) di intervista a Joaquin Navarro-Valls sulla sua vita accanto a papa Giovanni Paolo II.
Ci ragiono dal particolarissimo e limitatissimo punto di vista dell’uomo di comunicazione: Zucconi ci ha dato una bella pagina di giornalismo e Navarro-Valls una bellissima testimonianza (anche) di quello che possa e debba significare interagire con il sistema dell’informazione nel nostro tempo.
Ribadisco la mia riflessione è assolutamente delimitata allo spazio della comunicazione politica e sociale.
Da questo punto di vista anche in questo avvenimento giornalistico – tale mi pare l’intervista di Zucconi – va colto un segno importante della necessità del pensiero laico di fare i conti in modo nuovo, più sereno e costruttivo con il pensiero religioso. Non siamo nel solco della riscoperta della spiritualità che caratterizzò l’ultimo scorcio del novecento. Quella aveva una spinta rivendicativa e antagonista che non ha attecchito in Italia nonostante gli sforzi di personaggi della vecchia e della nuova destra.
C’è qualcosa di nuovo. Qualcosa che s’innesta nel solco della constatazione che la società post secolarizzata e post ideologica ha comunque bisogno di fare i conti con la domanda di trascendenza, di spiritualità. Si conferma la necessità di un principio ordinatore dei comportamenti individuali e collettivi, un generatore di senso, valido in generale e universalmente. Un principio ordinatore che vada oltre l’utilità individuale o collettiva.
Che significa questo per chi comunica in politica o per chi, facendo politica, intende comunicare in modo efficace?
In primo luogo che non può essere messa in secondo piano la dimensione valoriale delle motivazioni all’agire politico. Nessuna tecnocrazia può sostituirsi alla necessità di dare un significato trascendente all’agire politico. Ridurre la politica a tecnocrazia, a calcolo costi e benefici, significa abbattere ogni criterio selettivo etico e affidarsi esclusivamente a meccanismi regole e controlli. Meccanismi che accrescono non solo il ruolo delle amministrazioni pubbliche ma anche quello delle istituzioni preposte al controllo dell’applicazione delle regole, dalle diverse polizie alla magistratura. Una spirale in cui può prendere il sopravvento la lettera della regola sui propositi ispiratori determinando quelli che sono stati definiti “effetti perversi”, esiti non previsti e soprattutto non desiderati, contrari alle intenzioni. Una spirale per la quale le regole stesse verranno pensate più in funzione del loro aggiramento che in ragione degli obiettivi che si dichiarano. Si procederà così verso la de-responsabilizzazione dei comportamenti individuali e l’accrescimento delle mediazioni burocratiche (autorizzazioni, controlli, contenziosi) aumentando anche i margini di arbitrarietà e di arbitrio. Invece, soprattutto coloro che si pongono l’obiettivo del cambiamento ispirato a maggiori efficacia e giustizia, hanno bisogno di attribuire all’agire politico anche il compito di generare significato. Non si tratta di ripercorrere (peraltro inutilmente) la strada delle religioni laiche del novecento ma anche di non illudersi di poter agire politicamente senza forti valori ispiratori, basandosi solo sulla una presunta razionalità costi benefici dell’ uomo economico.
In secondo luogo se la politica tradisce le attese, se l’allargamento della partecipazione dei cittadini alla polis paralizza le scelte e non le migliora, se appare farraginosa mediazione di interessi e di poteri senza potenti valori che ispirano i comportamenti, se diventa il terreno per l’affermazione di ambizioni personali basate su cooptazioni oligarchiche sottratte alla competizione meritocratica, le persone si sposteranno “automaticamente” verso l’altro principio generatore di senso, più antico della politica, impastato con la politica, la religione. Quando Cesare non dà le risposte che ci si aspetta è ovvio rivolgersi a Pietro. Cesare è la metafora della politica e Pietro quella della religione. So bene che anche Pietro esercita potere e risponde alle logiche di Cesare ma lo fa in un altro ambito, parallelo non sovrapposto a quello della gestione delle istituzioni politiche.
Succede nel nord Africa, nelle società a prevalente orientamento religioso islamico, ma mi pare che una versione tutta italiana di questa tendenza possa essere riscontrata nella nostra società. Quindi rafforzare Cesare significa ancor più di ieri fare i conti con Pietro. E credo che questa volta debbano essere fatti alla luce del sole, senza affidare a relazioni diplomatiche più o meno riservate, senza baratti espliciti o indiretti, percorrendo la strada della battaglia culturale che questo implicherà. La politica da sola – soprattutto quella riformatrice e democratica -, senza riconoscere la sua propria crisi sul terreno dei valori, non ce la può fare e quindi deve accettare e sollecitare una competizione collaborativa con le istituzioni religiose, anzi senza mezzi termini, con la Chiesa cattolica, le sue gerarchie, la sua organizzazione.
Da parte dei riformatori democratici, va ricercato non solo un dialogo ma un terreno di collaborazione esplicita seppur rispettoso di ruoli e ambiti di intervento differenti e indipendenti. Anche la Chiesa cattolica non può che guardare con interesse chi fa dell’impegno in politica una declinazione del bisogno di senso, di trascendenza, di valori etici. Vanno perciò selezionati i tanti punti di convergenza e trovata una maniera civile di governare i pochi punti di esplicito (importante) dissenso, individuando un metodo condiviso di risoluzione di queste divergenze. Un metodo basato sulla comprensione reciproca come strada non solo per la riduzione del conflitto ma per il rilancio di un senso trascendente dell’agire politico.
Tratto da Associazione Democratici per Milano
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