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Pesce d'Aprile

02/04/2020

Toni Muzi Falconi

Memoria e storia sono l’unica energia vitale che ci consente di pensare al futuro. L'obiettivo prioritario oggi è quello di costruire, pezzo per pezzo, quel capitale sociale e relazionale del nostro territorio, devastato nell’ultimo decennio. Lo sostiene nel suo commento, Toni Muzi Falconi.

In questi ultimi giorni, prima l’accelerazione di fine secolo (1960 - 2000) e il graduale rallentamento poi (2000 - 2020) dei processi di globalizzazione viene da alcuni collegato al virus. Come per dire che siamo arrivati al capolinea. Io non condivido. Così come non condivido che quella che a tutti gli effetti è una "distanza fisica" venga impropriamente definita "sociale".

Fosse così questo mio breve intervento sarebbe solo un pro-memoria, un "amarcord", un "amici miei". Eppure, ora che la memoria la sto perdendo davvero (ma non per il virus), mi rendo conto che memoria e storia sono l’unica energia vitale che ci consente di pensare al futuro (all’oggi, ahinoi, ci pensano, con buona pace di tutti, i social e i cellulari).

Invece non siamo al capolinea. Una fortuna sfacciata mi ha permesso per 60 anni di partecipare attivamente alla nascita, alla crescita e poi al declino di questa importante fase storica della globalizzazione, che è sempre esistita. Solo per restare nel nostro seminato, pensate alla scoperta dell’America di fine '400 o, ancora più vicino a noi, alla Propaganda Fide del '600 (non Propaganda Live…) e poi Gutenberg, etc...

Oggi parlo di globalizzazione solo per affermare e sottolineare il ruolo, largamente e, diciamolo pure, "pudicamente" rimosso, che il nostro mestiere ha avuto, certo a differenti livelli di consapevolezza, ma ovunque con imponenti livelli di influenza sia nella sua accelerazione, nel suo rallentamento e ora nella sua crisi che solo casualmente coincide con quella che a qualcuno invece pare una vendetta della natura per come l’abbiamo conciata.

Le ultime stime più o meno attendibili - a seconda della definizione adottata: relatori o relatori e comunicatori - indicano in minino 2,5 massimo 4,5 milioni i colleghi oggi attivi nel mondo. Difficile pensare che organizzazioni private, pubbliche e sociali nel mondo sostengano (e generosamente) un tal numero di persone se non ne ricavassero benefici (almeno presunti).

Nel primo periodo di accelerazione (1960 - 2000) e ancora nella più recente fase di rallentamento e crisi della globalizzazione in questo ormai non più nuovo nuovo secolo (solo in questi ultimi giorni ne hanno decretato la fine personalità diverse come Tremonti, Rifkin, Chomsky), noi relatori pubblici abbiamo attivamente e consapevolmente partecipato, spinto, inquinato, accelerato le dinamiche del processo valorizzando, "vendendo" e persuadendo la riduzione delle distanze, dello spazio, del tempo e l’accelerazione del movimento, della velocità, della connettività di tutti i mercati - dalla finanza all'immigrazione, dalla disuguaglianza alla diversità, dalle armi alla pace, dalle salute alle malattie, alla prostituzione...

Ma una vera, autentica cultura delle relazioni pubbliche non è mai riuscita ad emergere, anche nei suoi momenti migliori perché, diciamoci la verità, ne ha teorizzati pochissimi essendo essa stessa la prima a dubitare, quasi incredula, del proprio fondamento disciplinare. Al contrario, una parte molto significativa, visibile e influente di noi (autore non escluso) ha sicuramente dirette responsabilità rispetto ai molti mali che oggi attribuiamo alla nostra vita associata su questo pianeta.

Epperò, per preparare questa nota, ho fatto un po' di ricerca e rintracciato al telefono e su skype una decina di autorevoli colleghi in ogni parte del mondo (da Shanghai a Pretoria, da Sao Paolo a Milano, da Accra a Mosca) che secondo me in questi anni hanno fatto e continuano a fare il loro lavoro producendo valore aggiunto per i propri datori di lavoro, per la collettività e per sè.

In sintesi: tutti più o meno consapevolmente applicano una visione che Bauman e Piero Bassetti (oggi ha 92 anni ed è per me il più arguto, intelligente e sorprendente saggio in circolazione, un valore assoluto per il nostro Paese) hanno definito glocale.

Non amo quel termine, anzi diciamo pure che lo trovo orrendo, ma negli anni l’ho parecchio studiato e ne apprezzo un particolare approccio metodologico: quello dei generic principles and specific applications.

Nello specifico:

  • Ogni organizzazione ha una propria epigenetica (la sovrastruttura del gene) da cui non può prescindere, ma che invece può conoscere, adattare, aggiustare e modificare.

  • Ogni organizzazione opera in uno o diversi territori (nazione, regione, provincia, comune). Anche ogni territorio ha una propria epigenetica infrastrutturale con un proprio sistema istituzionale, politico, economico, sociale, religioso, mediatico e connettivo. E anche questa è conoscibile, adattabile, aggiustabile e modificabile.


Il relatore pubblico efficace assiste l’organizzazione a raggiungere gli obiettivi definiti e non può non tenere conto, conoscere, studiare, aggiornare e influenzare le dinamiche di tutte queste variabili.

 

Territorio per territorio. Il comunicatore riceve, aggiusta, adatta il messaggio, trova il canale giusto e lo trasferisce. Il relatore pubblico invece ascolta attivamente e dialoga con gli stakeholder per aiutare ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione governando le relazioni con loro e tenendo conto delle loro aspettative, spesso diverse e conflittuali.Obiettivo per obiettivo. Sono attività diverse, egualmente utili e dignitose e, in molti casi, integrate. Insomma, detta così non mi sembra molto difficile da intendere.

Nella nostra letteratura questo approccio si chiama generic principles and specific applications’, elaborata da Bob Wakefield (Brigham Young University), Sriramesh Krishnamurthy (Colorado University), James Grunig (Maryland University) e chi scrive. Dove generic si riferisce alla molecola del farmaco (epigenetica).

Un approccio che rientra in quella pratica di governo delle relazioni che ha origine applicativa in Italia nel 1987, studiato e introdotto sul mercato della consulenza dalla allora SCR Associati.

Tutti i colleghi internazionali che ho interpellato per presentare questa nota oggi, e che l’hanno studiato e applicato, mi confermano che ci vuole dedizione, intelligenza, cultura, infinita curiosità, oltre alle competenze professionali intuibili ma che cambiano da un territorio all’altro anche in funzione delle applicazioni specifiche.

Per me oggi, in Italia, dobbiamo prepararci a questa grande sfida professionale proponendo a noi stessi, soprattutto ai meno vecchi, ai nostri clienti e ai loro stakeholder, un obiettivo prioritario, questo sì epigenetico, di costruire, pezzo per pezzo, quel capitale sociale e relazionale del nostro territorio che è sempre stato assai ricco dell’uno e dell’altro e che, per ragioni diverse le cui origini e dinamiche sarebbero il primo aspetto da discutere fra di noi, è stato letteralmente devastato nell’ultimo decennio. E non dal virus. 

Come molti di noi hanno studiato e descritto, anche con esplicitazione di casi, a Bled qualche mese fa (e non è casuale che i territori specifici esplorati sono, in tempi di pandemia, ancora in prima pagina come solidali, resilienti e produttivi) la creazione di capitale sociale e relazionale attraverso iniziative congiunte fra organizzazioni private, sociali e pubbliche sul territorio è oggi la nostra nuova missione, auto-ri-definiti come "tessitori sociali", ispirati da Aldo Bonomi, Omer Pignatti e Giuseppe Zuliani.




Intervento del primo aprile 2020 in seduta Zoom su iniziativa di Adriana Mavellia, Omer Pignatti, Luca Sossella, Francesco Rotolo e l’autore con la partecipazione attiva di una ventina di analisti, docenti, consulenti e imprenditori delle relazioni pubbliche.    

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