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Quale controllo simbolico nell’era dei social network?

24/04/2012

L’affermarsi dei media sociali quali modalità abituale di relazione tra cittadini, media, politica e istituzioni, ha scardinato il ruolo tradizionale degli intermediari dell’interazione comunicativa. Quanto contano ancora i comunicatori nella sfera pubblica? _Matteo Colle_ tenta di fornire una risposta ad un quesito di sempre maggiore attualità.

di Matteo Colle
La domanda è questa: quanto ancora contano e possono contare i professionisti della comunicazione nell’era della sfera pubblica costruita dai social network? I politici, gli amministratori, la pubblica amministrazione, soccomberanno sotto il buzz dei social network, sepolti da conversazioni in cui sputtanamenti e relazioni personalizzate divengono l’orizzonte brevissimo della comunicazione di pubblico interesse (e con questo comprendiamo comunicazione pubblica e politica)?
Il punto delle tante riflessioni che si fanno in questi mesi e anni, mi pare proprio questo. L’affermarsi inevitabile e, perché no, auspicato, dei social network come modalità comune e abituale della relazione tra cittadini, media, politica e istituzioni, ha creato una sfera pubblica immediata in cui non solo diventa estremamente difficile la costruzione di una relazione dotata di senso e durevole nel tempo tra i diversi soggetti, ma interroga il ruolo che ancora possono avere i soggetti che svolgono il complesso ruolo di intermediari dell’interazione comunicativa. In definitiva che controllo simbolico è ancora possibile nella comunicazione sui social network?
Una struttura reticolare e tendenzialmente trasparente come quella dei social, definisce campi in cui le relazioni di potere e i rapporti di forza simbolici vengono stravolti. L’amministratore pubblico si trova direttamente coinvolto in dibattiti istantanei che riguardano le decisioni di cui è responsabile, le sue intenzioni, le sue posizioni politiche. E’ soggetto, insomma, a un processo di rendicontazione in tempo reale che appare il trionfo della trasparenza amministrativa, ma al contempo pone nuove questioni. L’amministratore e il politico, perdono, in gran parte, il vantaggio, il potere, che hanno sempre avuto: la possibilità di costruire il messaggio, di plasmare i simboli in modo da rendere più efficace, più persuasiva, più comprensibile, più politicamente gestibile la comunicazione. I cittadini si trovano nella disponibilità di un potere prima sconosciuto, o conosciuto solo in parte: la possibilità di sottoporre questioni personalissime (la famosa buca del marciapiede sottocasa) a politici, amministratori e uffici e di avere, o pretendere, una risposta immediata e di controllarne la veridicità.
La strategia e le tecniche di comunicazione digitale possono soccorrere operatori e soggetti pubblici. Le policy in cui si precisa che comportamento si intende tenere nella propria comunicazione in rete, la costruzione di strategie di medio o lungo periodo in cui si stimolano le interazioni orizzontali piuttosto che tra utenti e titolare della pagina o dell’account, sono, come suggerisce in una sua riflessione, Augusto Valeriani, metodi utili, per non dire indispensabili, per la costruzione di un’ecologia della sfera pubblica e politica digitale. D’altra parte, rimane il fatto che lo sviluppo dei social network, e la riduzione del digital divide, hanno ristrutturato la “microfisica del potere” all’interno della comunicazione. E al politico o amministratore non resta che stare al gioco: soccombere all’istantaneo o mettere in atto tattiche.
Ma è proprio così semplice? Se proviamo ad applicare la habermasiana situazione comunicativa ideale, in cui tutti i soggetti si relazionano in perfetta simmetria, all’opinione pubblica social-mediata, potrebbe emergere qualche sorpresa. La trasparenza, la simmetria (alcuni dicono la democrazia) dei social network, non appaiono così diverse a ben guardare da quelle dei media tradizionali. La strutturale asimmetria di Twitter, ad esempio, ha fatto sì che al suo interno si siano generati veri e propri fenomeni di broadcasting di stampo novecentesco, in cui pochi utenti sono in grado di selezionare temi di dibattito, contenuti e definire l’agenda di centinaia di migliaia di followers. Basta dare un’occhiata ai grafici sempre puntuali di Vincenzo Cosenza per poter facilmente applicare al fenomeno le metodologie di studio consolidate sul gatekeeping e sull’agenda setting. E le stesse dinamiche di friendship su altri social mimano dinamiche di consenso che transitano, spesso, anche se non sempre, al di fuori della rete. Seguitissimi on line sono spesso personaggi che hanno costruito la loro notorietà off line o che dei media sono professionisti.
E allora che risposta diamo alla domanda di partenza? Politici e amministratori si devono rassegnare? Ed è possibile e in che modo una qualche forma di controllo simbolico sui contenuti e sugli strumenti di comunicazione che fluiscono sui social network? Una prima parziale risposta è a mio avviso positiva per entrambi i quesiti. I politici e gli amministratori si rassegnino e comincino a pensare che è fondamentale una rendicontazione permanente del loro lavoro, che le decisioni amministrative devono nascere incorporando la loro dimensione social-mediata e comunicativa. Ciò significa non solo cambiare approccio al modo di relazionarsi con il proprio pubblico, ma investire in un ripensamento funzionale e strutturale delle organizzazioni, politiche o pubbliche che siano. Si rassegnino al fatto che si sono ridotte le riserve simboliche e di potere su cui potevano contare: informazioni, linguaggio, conoscenze e relazioni che rappresentavano un capitale simbolico esclusivo si è sgretolato per divenire sempre più diffuso.
D’altra parte come tutti i media anche i social non sono immuni dalle dinamiche editoriali e di consumo che ben conosciamo. E’ possibile che siano quanto di più simile a un territorio trasparente e democratico abbiamo conosciuto fino ad oggi, ma rimane il fatto che per usarli con efficacia occorrono tecniche e tattiche che non sono appannaggio di tutti, servono investimenti formativi, tecnologici e in risorse umane. E da ultimo, ma non meno importante, serve una nuova o rinnovata intelligenza rappresentativa, una capacità di riscrittura dei linguaggi e dei capitali simbolici da utilizzare nel dialogo con i cittadini.
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