Quattro risposte forti al dilemma etico posto da Toni Muzi Falconi
29/06/2005
Nicoletta Cerana, Luigi Norsa, Nicola Mattina e una collega che preferisce restare anonima commentano l'articolo della scorsa settimana. Ed ecco anche una replica di tmf...
Esiste un tribunale dell'opinione pubblica? Risponde Nicoletta Cerana:Per rispondere ai dilemmi di Toni non dobbiamo scomodarci molto. Le risposte sono già state fornite nel 1947 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e nel 1948 dalla Costituzione Italiana.Così come "tutti sono eguali davanti alla legge e hanno diritto senza alcuna discriminazione ad una eguale tutela da parte della legge ( art. 7 della Dichiarazione Universale)", così altrettanto "ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto... di ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere" ( art. 18 della stessa Dichiarazione).Così come "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" così altrettanto "Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (Art. 24 e Art. 21 della Costituzione Italiana).E quindi, aggiungo io , anche con il mezzo delle "relazioni pubbliche".Ma se qualcuno ha ancora qualche dubbio nell'esercizio etico di tali libertà può trovare una risposta chiara nell'art. 29 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo che recita "nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.Allora il problema dov'è? A mio parere personale il problema rientra nella sfera dell'etica professionale. Ma anche in questa sfera i codici deontologici danno una più che esauriente risposta a questi dilemmi. Per quanto riguarda i relatori pubblici il punto di riferimento base è il Codice di Atene, che è il nostro codice internazionale di etica professionale, che si ispira alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e che ci chiede di astenerci dal:- subordinare la verità ad altre esigenze (cioè a personale opportunismo economico, o politico, o sociale);- diffondere informazioni che non siano basate su fatti fondati e controllabili (anche se purtroppo è consuetudine dei professionisti di relazioni pubbliche anziché cercare la verità da comunicare aggirare l'ostacolo facendo sottoscrivere ai committenti una liberatoria che li solleva dalla responsabilità della veridicità di quanto dichiarato per loro conto pubblicamente);- impegnarci in azioni contrarie alla morale, all'onestà, alla dignità o all'integrità delle persone;- utilizzare qualsiasi metodo o tecniche mirate a creare negli individui motivazioni inconsce e non controllabili dalla loro volontà rendendoli così non responsabili delle proprie azioni.Solo attenendoci a quanto disposto dal Codice di Atene (e dai correlati codici professionali nazionali) saremo in grado di rappresentare efficacemente la posizione della nostra organizzazione nel caso in cui sia sottoposta al giudizio del cosiddetto "tribunale dell'opinione pubblica". E questo indipendentemente dal fatto che il professionista parteggi o meno per la causa del proprio committente.Comunicare non significa infatti "tifare" per la causa, ma significa solo dare voce alla libertà di espressione che è un diritto universale inalienabile. E nel dare voce a questo diritto dobbiamo fare nostre non solo le norme di legge ma anche le norme deontologiche che, come noto, vanno oltre la legge per la massima garanzia dei terzi nei confronti del nostro agire professionale.E queste norme deontologiche il libero professionista le trova nei propri codici etici e il professionista d'impresa le trova nel codice etico dell'organizzazione per cui opera.Quindi, in conclusione: per chi opera all'insegna di tutto ciò non può esistere conflitto o confusione tra etica personale, etica professionale ed etica organizzativa.Se c'è conflitto o confusione allora vuol dire che c'è qualcosa che non va a livello personale, o professionale o organizzativo.Ma a questo qualcosa che non va ci pensano poi (e fortunatamente!) i Codici Etici con i loro regimi sanzionatori e la Legge. Lo sanno molto bene quei professionisti di relazioni pubbliche che negli anni di Tangentopoli (da non dimenticare mai) sostennero la causa dei loro committenti con così tanta efficacia da farsi persino "portatori di bustarelle" che, però, poi portarono gli stessi professionisti in galera.
Risponde Luigi Norsa:Caro Toni,la questione è delicata, da anni sento sollevare specie in occasione di lezioni alle nuove leve la questione dell'etica. Non sono ovviamente qualificato per esprimermi ex-catedra su tale tema che non può che essere valutato e affrontato soggettivamente, posso solo esprimere la mia personale posizione.Ritengo che qualunque committente abbia diritto a richiedere e ottenere un supporto professionale per esprimere sui media o direttamente agli stakeholders la propria posizione. Un professionista della comunicazione può, se lo ritiene, fornire questo supporto affinché gli interessi del committente siano tutelati attraverso una efficace comunicazione della sua versione o posizione. Ci devono essere però dei paletti: se io mi impegno per una efficace comunicazione, devo però assicurarmi nei limiti del possibile che il messaggio sia veritiero, che non sia falso, deliberatamente fuorviante, che non danneggi ingiustamente i diritti di altri, che non impieghi tecniche illegali o immorali. Questo comporta che un professionista faccia un buon uso di scetticismo e diffidenza nei confronti di quanto asserito dal committente e che lui per primo metta alla prova il messaggio.In questo senso la funzione del professionista della comunicazione è simile a quella dell'avvocato: quest'ultimo, è vero, rappresenta il cliente, argomentando non la difesa dell'individuo, ma il sistema giuridico che assicura a chiunque un giusto processo, cioè è un esperto della procedura civile o penale a seconda dei casi. Il professionista è un esperto della procedura di comunicazione, di informazione, di persuasione e di motivazione non importa se questa procedura non è codificata (d'altronde la procedura legale è codificata differentemente da paese a paese).E' difficile trattare questa materia in astratto, va vista nella concreta applicazione. E' necessario per il professionista della comunicazione astenersi dal giudicare il committente, ma valutarne invece il messaggio e le strategie e tattiche di comunicazione. Non è necessario essere convinti che abbia ragione, bisogna però essere convinti che abbia diritto a comunicare quel messaggio in quel modo.E' vero che umanamente non si può lavorare per un cliente di cui non si accettino gli scopi: è una questione etica non tanto verso l'opinione pubblica quanto verso di lui, se lo ritenete un sordido figlio di puttana che vuole perseguire scopi nefasti non riuscirete a mettere il giusto impegno e l'adeguata professionalità al suo servizio meglio lasciare a qualcun altro l'opportunità.Per quanto avido, mi sono capitati un paio di casi in cui ho preferito declinare l'incarico, sono soldi che non ho mai rimpianto. E ci sono d'altronde cause, da altri ritenute rispettabilissime e degne di supporto, per cui non farò mai nulla a favore, ma è una questione di mie opinioni personali, non di etica professionale. Per concludere, un buon aiuto sul fronte dell'etica viene dalla rotariana prova delle quattro domande:La Prova delle 4 domande. Ciò che pensiamo, diciamo o facciamo:1. Risponde alla verità?2. È giusto per tutti gli interessati?3. Darà vita a buona volontà e a migliori rapporti d'amicizia?4. Sarà vantaggioso per tutti gli interessati?
Un saluto affettuoso, spero di avere contribuito a confondere ulteriormente le idee: i dubbi sono più etici delle certezze!Luigi Norsa
Risponde un'amica che preferisce non firmarsi:
Caro Toni,mi pare un dibattito segno della confusione dei tempi: i sistemi pubblici si sono evoluti nell'ordinamento politico e giuridico attraverso rivoluzioni, sofferenze, guerre per garantire diritti fondamentali dell'individuo basati su filosofie o ideologie che avevano un obiettivo "etico" (sia esso liberale o marxista). In questo quadro la difesa dell'individuo nel processo giudirico è sorta quasi orizzontamente in tutti i sistemi, eccetto quelli dittatoriali, per garantire l'equità nella gestione della giustizia (checks and balances).Mi pare che non si possa mettere questo tema sullo stesso piano del diritto che si debba garantire a tutti il diritto di rappresentare sui media la propria opinione, e perchè no anche il chirurgo estetico, o la psicoterapia come altri diritti fondamentali?Se allora non sono diritti sullo stesso piano (e non lo sono sul piano della realtà perchè nessun stato al mondo lo fa) la scelta di lavorare senza coincidenza tra obiettivi/valori personali e valori/obiettivi professionali è solo una scelta sul piano individuale.Scelta peraltro assolutamente banale e popolare (i politici, gli imprenditori, i giornalisti etc) che però almeno non dovrebbe trovare excusatio filosofiche che non hanno ground solo perchè è difficile ammettere l'opportunismo di queste scelte personali, il cui confine ognuno ogni giorno sceglie mediando (almeno io molto faticosamente) tra i propri valori/identità personali e le selvagge leggi del business.
Ed ecco la replica di Toni Muzi Falconi:Il bello/brutto dei dilemmi etici è che, come suggerisce la stessa Parsons nel suo libro, ma anche Luigi Norsa nel suo commento, ogni situazione è diversa dalla precedente e non è detto che quel comportamento che ci aveva lasciato a nostro agio la volta precedente ci appaia adeguato nella situazione di oggi.Insomma, in una situazione in cui i gatti non sono neri o bianchi è la specifica interpretazione di una situazione specifica a orientare l'uscita dal singolo dilemma.Naturalmente questo vale se teniamo ferma la distinzione fra etica personale, professionale e organizzativa (a questo proposito Nicoletta: non mi pare giusta la distinzione che fai fra libero professionista legato all'etica professionale e dipendente di impresa legato all'etica dell'organizzazione. Non è questo il senso di quella distinzione: ognuno di noi convive con tre etiche, indipendentemente dal suo ruolo interno o esterno all'organizzazione. Infatti, anche il consulente deve tenere conto dell'etica del suo cliente, come il direttore della comunicazione tiene conto dell'etica della professione che ha scelto di fare) e soprattutto se si prescinde da valori ideologici che sanzionano a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, indipendentemente dalle circostanze.Per capirci, è ovvio che salta la distinzione fra le tre sfere di etica se uno abbandona la prospettiva di laicità dell'individuo.Quindi continuiamo la discussione. Mi pare di interpretare che Giovanna (la chiamo così per comodità) accetti il principio che ogni professionista possa lavorare per chi ritiene più opportuno in base alla propria etica personale purché però non si ammanti dietro finti giustificazionismi, tipo quelli del tribunale dell'opinione pubblica che puzzano tanto di razionalizzazioni ex post.Così anche Luigi, il quale introduce il tema dei gatti sempre grigi, propone una interpretazione relativista del tutto comprensibile da parte di che sia, come è lui, un professionista stagionato e solido.Secondo Nicoletta invece, da una prospettiva che in sostanza riconduce l'etica ad una sola, quella della persona (che dovrebbe sapere quel che è giusto o sbagliato), la ricetta che propone è probabilmente la più semplice da applicare, ma anche quella che meno aiuta il giovane professionista a rendersi consapevole che l'etica nella nostra professione non è un di cui' che o hai imparato a catechismo (i.e. i corsi di aggiornamento della Ferpi) oppure non ce l'hai, ma è una tematica costante che ti accompagna giorno per giorno attraverso tutta la tua carriera professionale. Di qui la sua rilevanza, la sua relatività, il suo continuo cambiamento e quindi la necessità di continuo confronto, discussione e aggiornamento.L'esempio lo si può dedurre proprio dalla nostra discussione:°negli anni Ottanta sarebbe stata considerata blasfema (ma come metti in discussione i sacri principi del codice di Atene?! - a proposito Nicoletta, il codice di Atene cui ti riferisci come punto di riferimento risale al 1961 e non puoi considerarlo valido se non dal punto di vista storiografico - prova a leggerti con attenzione il protocollo della Global Alliance del 2003 che la Ferpi ha fatto proprio solennemente e ti renderai conto della sostanziale diversità di impostazione rispetto al vecchio e nobile cimelio cui ti riferisci);°negli anni Novanta sarebbe stata considerata ridicola (ma come, con tutti i tuoi colleghi incriminati o indagati ti metti a fare questioni etiche?);°oggi, a seguito dell'esplosione degli episodi che hanno sconvolto la disciplina della business ethics, anche la professional ethics viene messa in forte discussione e un libro come quello della Parsons viene ad agitare i sonni miei e di tre sperimentati, anziani e consumati relatori pubblici che ne hanno visto di cotte e di crude.Accetto senz'altro l'argomento che la similitudine del tribunale dell'opinione pubblica per invocare parità di trattamento sul livello di etica professionale fra relatore pubblico e avvocato sia troppo forzata. Ok, toucheé!Resta però valido secondo me l'argomento conseguente:non importa per chi lavori, ma come lavori.Per capirci: se io lavoro per la Parrocchia all'angolo e inganno il giornalista inventandomi una storia per nascondere un caso esplicito di pedofilia del parroco sono professionalmente non etico. Così come sono del tutto etico se consiglio a Ricucci di uscire allo scoperto e di farsi conoscere meglio rispetto al mistero creato intorno a lui, indipendentemente dal fatto che Ricucci sia in realtà il cavaliere bianco di una Italia mediocre che si difende dai poteri forti (versione del premier), oppure l'ultimo rampollo della speculazione finanziaria pura da cui comunque discendono quegli stessi poteri forti. (tmf)Altre opinoni? Scrivi e mandaci la tua opinione!
All'ultimo momento è arrivato anche il commento di Nicola Mattina:Caro Toni,trovo singolare il fatto che si paragoni il relatore pubblico all'avvocato: quest'ultimo infatti entra in campo per assistere un soggetto che è chiamato a difendersi e a dimostrare di non averecommesso reati. Quindi dire che un cliente ha *diritto* a un relatore pubblico che ne rappresenti le istanze nei confronti dei media è come dire che il ruolo del comunicatore è difendere l'immagine del proprio cliente in quanto esso commette illeciti o in quanto i suoistakeholder pensano che egli lo faccia!Ti confesso che i grandi discorsi sull'etica non riescono a coinvolgermi più di tanto, perché alla fine si riducono in grandi petizioni di principio che non hanno riscontro nella vita pratica. Puòun non-fumatore lavorare per i produttori di tabacco? Certo che sì.Può farlo con la stessa efficacia di un fumatore? Sì, se è un bravo professionista. Può sostenere che il fumo rilassa o che il fumo passivo non nuoce alla salute magari supportando le sue argomentazioni con ricerche addomesticate o pseudo-scientifiche? Sì, se la cosa nongli provoca particolari turbamenti morali!In definitiva, tutte le elucubrazioni sull'etica delle professioni (di qualsiasi professione) possono essere sintetizzate in un'unica, fondamentale, massima: pecunia non olet!CiaoNicola